Mi ha sempre infastidito la sensazione scivolosa della plastica sotto le dita. O la puzza di qualcosa di nuovo appena tirato fuori dalla confezione. I colori innaturali, l’uguaglianza di ogni singolo cubo.
Mi urtava la nitidezza dei contorni, la pulita e asettica divisione dei pezzi, e come non importasse quanto li mischiassi, restavano sempre e comunque uguali a loro stessi. A meno che non rompessi il cubo, o lo fondessi. E non avevo nessuna intenzione di vanificare sedici ore della mia attenzione e darla vinta a un gioco per bambini che alcuni sanno fare bendati. Quel maledetto si prendeva gioco di me, quando pensavo di aver risolto un lato, giravo e l’intero cubo era a soqquadro. Fottuto, direbbe mio figlio. Così mi rimetto a lavoro, gli do vita dandogli movimento. Ma rimane sempre uguale a sé stesso.
Delle volte mi divertivo a lasciare la parte superiore e quella inferiore girati a metà, così da intravedere la struttura interna. Mi dava una specie di senso di potenza il poter decidere della determinatezza di quel gioco, di poter dire dove iniziava e finiva la sua integrità.
Quel coso, però, mi guardava dalla scrivania, mentre firmavo le carte, timbravo gli ordini, recitavo la mia parte al telefono. E per qualche ragione, non riuscivo a darmi pace. Erano tre mesi che cercavo di risolverlo senza ricorrere a stupide guide o aiuti esterni, quel sapientino di Riccardo mi guardava provarci e rideva sotto tono perché sapeva mi sarei infuriato se avesse reso palese il suo insulto alla mia intelligenza.
Qualche volta, uscivo dallo studio per andare a pranzo o incontrare i ministri e al mio ritorno quell’affare era risolto, irridente al centro della scrivania, a beffarsi della mia stupidità.
Lo rimescolavo il più velocemente possibile e mi rimettevo al lavoro. Ogni volta che prendevo una pausa, provavo a riportalo al suo stato di grazia, al suo ordine costituito nel suo DNA plasticoso di oggetto ludico con delle regole e delle strategie per batterlo. O battere me stesso, forse, battere l’idiota che l’ha comprato e che ha accettato la sfida di un arrogante undicenne che era sicuro non sarei stato in grado mentre lui ora sapeva risolverne tre in due minuti. Rideva senza fiato, si vedeva dagli occhi. “Il grande generale che non sa come risolvere un gioco” mi chiamava con sua madre, che mi riferiva quest’impudenza per paura glielo leggessi negli occhi. Se non so, non posso cambiare, non posso essere efficace.
Accarezzavo quelle piastrelle multicolore sulle facciate del cubo per carpirne qualche segreto, qualche movimento che non avevo ancora capito, magari c’era un modo per muovere il centro senza romperlo. Ma dentro di me sapevo che non era una questione di tecnica, e che il centro è sempre quello, anche se diparte in sei direzioni. Mentre lo accarezzavo, lo rimisi in posizione di mezzo giro, e vidi il nero opaco sotto le piastrelle, piccoli cubetti vuoti. Per un secondo, l’aria intrappolata lì dentro mi sembrò risuonare con quella nei miei polmoni, e dovetti espirare fino a restare senza fiato. Sentii come se qualcosa rimbombava nelle ossa, come se cave. Riposi il giocattolo per tornare al rapporto dell’operazione in Sud-Italia.
Quando leggevo il numero delle vittime, m’immaginavo un esercito di 1 che col fucile al petto e la divisa stirata e lucida avanzano sparando, e una piantagione di 1 sporchi di sangue e fango e terra, abbarbicati in costruzioni fatiscenti, bucate, in cui rimbombano spari ed esplosioni, cadere e diventare 0, e trasferire l’ultima traccia della loro vita su un foglio di carta che li riassumeva, come duecentoquindici. E quel numero andava a sommarsi ai centinaia di altri rapporti, e formava i tasselli di (almeno fino ad ora) sessantaduemila. Immaginai per un attimo un enorme stanzone venir riempito in un paio d’ore, dal pavimento al soffitto, da questa pila ordinata di cadaveri, che però per me erano sempre e soltanto un ammasso di 1.
Se mi avessero sparato, o fatto esplodere in quell’esatto momento, sarei stato il sessantadue millesimo e uno? O c’era un’altra pila per quelli come me? Ripresi il cubo e pensai che tra tutti quei colori mi piaceva di più il blu, perché non assomigliava a nessuno di noi, non catturava la mia attenzione in nessun modo particolare, mi liberava dal peso di dovergli dare un significato. Bianco, rosso, verde, giallo, arancione, nero, tutti fin troppo significativi. Specie il nero, che qui manteneva insieme la struttura, lontano dalla vista di chi risolveva il gioco, o almeno ci provava. Bianco come l’arroganza, rosso sangue, verde politico, giallo colerico, arancione come le esplosioni, nero come le divise. E sembrava che per quante volte girassi i vari piani, facessi rotare gli assi, assaporassi lo schifo plasticoso del cubo, ritornava sempre ad essere vittima del caos endemico del suo stesso costrutto.
Più tardi, alla luce di una lampadina, ero ancora intento a dirigere quei movimenti per farne un’armonia sensata, quando alla porta s’affaccia quella cosa astuta di mio figlio, vestito dalla madre con giacca e pantaloni azzurrini e una cravatta di un rosso seducente, accattivante; ma immaginai che le pantofole giallo brillante fossero una sua idea. La camicia sembrava pallida come lui.
Lo vidi che voleva dirmi qualcosa, ma che aveva paura. Ero stanco, non solo del cubo, e gli dissi che per quella sera avrebbe potuto dire qualsiasi cosa senza ripercussioni, non avevo le forze di disciplinarlo.
La prima cosa che fece fu ovviamente ridere. “Un adulto come te che non riesce a fare un giochino. E nemmeno il più difficile”. Tirò fuori dalla tasca della giacca una versione avanzata del cubo, era un dodecaedro con ogni singolo tassello diviso in altri dieci. Era perfettamente allineato. “Vedi, è più complicato di così” e indicò il mio cubo “ma il fatto è che tu non riesci a risolverlo perché non segui le regole, ogni gioco ha le sue leggi e se non le rispetti non lo risolverai mai. Ecco, vedi.” E in letteralmente venticinque secondi era come doveva. “Ognuno al suo posto. Anche se, io lo preferisco diversamente.” E fece fare altri due giri ad ogni lato, così che i colori erano mischiati con uno schema a rombo. “Vedi, così è più bello, risaltano di più. Se non impari a giocare, finirai col romperlo.” Rimasi paralizzato per qualche istante, nel mentre posò il suo dodecaedro di fianco al cubo e la cosa non aiutò. Mi alzai, guardai le montagne in lontananza che si allungavano fuori la finestra e pensai a lungo sul fatto che ognuno di noi stava lottando duramente per far avere al nostro lato un unico colore, mentre il resto del mondo impazziva.

Alessandro Di Porzio