Martino Lo Cascio è nato a Palermo, dove vive. Psicologo e psicoterapeuta, è uno scrittore e regista di teatro e cinema. Tra i documentari, Cronache da Beslan (2006), Vulpitta Residence (2008) e L’uomo che sembrava un taxi (2012), mentre Vade retro – La riscossa dei poveri diavoli, opera teatrale, è stata realizzata con richiedenti asilo e migranti. Ha pubblicato il libro di poesie Cuntraversi (Viennepierre 2008), il romanzo Il giardino della memoria (2017) e 101 scorie zen. Foto e haiku per una via poetica all’ecologia (Il Palindromo 2021).

Iniziamo dal titolo: “101 Scorie Zen (La vita, di nascosto).”  Come mai hai scelto questo titolo? 
È stata davvero un’illuminazione, in pieno atteggiamento zen. Le foto erano circa 101. Lo spirito con cui ho fotografato era impregnato di lentezza, concentrazione, attenzione al dettaglio, svuotamento della volontà d’inseguire una meta, tutti elementi della filosofia zen. Non le ho mai cercate. Ci sono inciampato. E gli haiku che vi ho abbinato sono evidentemente parte di quella tradizione culturale ed estetica. Il titolo quindi era già là…solo da cogliere.
Amo, peraltro, i giochi di parole e il rapporto tra “scorie” e “storie” mi sembra fertile e creativo.
Il sottotitolo (La vita, di nascosto) è per me altrettanto cruciale. Le foto inquadrano in primo piano qualcosa che ritengo ancora vivo e che però risulta nascosto ai nostri occhi. Ne vediamo solo l’accumulo vergognoso e nocivo, la sporcizia del singolo residuo non smaltito correttamente, ma anche per questo l’oggetto singolo non riusciamo a vederlo davvero, a interrogarlo ancora, a metterlo al centro della nostra osservazione. Se come dice Pino Daniele, “Napule è ‘na carta sporca e nisciuno si n’importa”, io sono portato, invece, a prendermi cura di quella carta, proprio perché è sporca, o meglio è stata sporcata.
Mi metto al suo servizio. La carta pulita non ha bisogno di parola, attenzione, soffio carezzevole.

“101 Scorie Zen” ha echi autobiografici? Se sì, in che modo si riconnette al tuo vissuto?
Le foto sono state tutte scattate in meno di una settimana mentre attraversavo nei momenti di pausa le coste del Togo e del Benin. Ero là per conoscere, iniziare a comprendere e documentare i cerimoniali della religione animista vodù. Forse anche la vicinanza ad una spiritualità che sente la presenza e la potenza del vivente negli oggetti, nelle cose, nel materiale organico e inorganico, ha contribuito a farmi “sentire” il richiamo “dell’anima delle cose”. Nell’opera, peraltro, convergono altri aspetti della mia biografia. La mia tesi di laurea era sui “senza fissa dimora” e ho lavorato in Madagascar con famiglie che vivevano nelle discariche, riuscendo a fare degli scarti, dei residui, dei rifiuti, l’elemento fondamentale per sopravvivere, riciclando e riparando. Questo è l’altra faccia del mio progetto. L’analogia forte tra le scorie del mondo materiale e le “scorie umane” del nostro wasteocene, per utilizzare un termine caro a un vostro concittadino.
Ancora, l’introduzione della parola attraverso gli haiku si lega al fatto che ho sempre amato questa forma poetica, tipica della filosofia zen. Io stesso aderisco alle pratiche di meditazione secondo le indicazioni del monaco buddhista vietnamita Thich Nhath Hanh. Grazie alla vostra domanda, mi rendo in effetti conto che “101 scorie zen” racchiude, sintetizza, rielabora tante parti della mia storia.

L’articolo di Vincenza Alfano del Corriere del Mezzogiorno del 20 aprile di quest’anno, dedicato alla tua esposizione al Bellini, riporta la tua seguente dichiarazione: “[…] Ogni sistema produce le sue scorie che diventano elementi determinanti per risalire all’identità di chi abita in quella porzione di mondo”. Quali sono, quindi, le differenze riscontrabili tra i rifiuti del Togo e del Benin e quelli lasciati su una spiaggia campana o siciliana?
State certi che da quelle parti non vedrete una lavatrice o un frigorifero, né materassi o divani ancora seminuovi. Purtroppo, però, anche là c’è un’invasione di sacchetti di plastica e la cultura della loro dannosità è poco diffusa.
Al di là delle singole cose, pur differenti come si vede in alcune delle immagini della mostra e del catalogo edito da Il Palindromo, ritengo che si possa percepire globalmente uno stile di vita. In quei luoghi si avverte la forte compressione rispetto alla varietà di merci del nostro standard abituale e, invece, la ripetizione di alcuni oggetti di uso comune, semplici, poveri. Così come tristemente si intuisce come anche là si stia perdendo il legame ancestrale dell’umanità con l’elemento naturale, ulteriore triste lascito del colonialismo e del non meno violento neocolonialismo attuale, economico e culturale.

Ne “Il giardino della memoria”, edito da Mesogea nel 2017 per la collana “Petrolio”, si affronta il tema della voce non udita, del grido come ultima forma comunicativa, messaggio diretto e primordiale. C’è, nei rifiuti scordati tra le pieghe della sabbia, un grido inascoltato? E se sì, cosa gridano quei rifiuti e, soprattutto, a chi?
Mi piace il riferimento al mio primo romanzo. In fondo ci sono delle linee che un’artista continua a tracciare, anche quando i contenuti o i codici sono differenti. Amplio dunque un concetto accennato in precedenza. Proprio dove nacque la schiavitù, il golfo di Guinea, dove il colonialismo espresse la sua più tragica violenza, dove le persone furono ridotte a scarti e trattati da scorie da spremere e smaltire, proprio là le “scorie zen” mi hanno chiamato a testimone, mi chiesero ascolto compassionevole. Quelle tracce materiali di passaggi umani sono l’orma di un’intera storia di rapina, sfruttamento, insieme capitalista e consumista e razzista (laddove le materie e le marche sono occidentali questo diventa ancora più esplicito e brutale). Le spiagge africane come ricettacolo e rifugio degli scarti, il continente come discarica estrema globale, come limone da spremere e lasciare marcire infine. Tutto ciò è un urlo inascoltato. Qualcosa che attende qualcuno che lo possa articolare in una voce. Anche per questo, proprio là cerco di vedere il fior di loto che cresce dal fango. Una volta Primo Levi ha scritto “Chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicoltura”

Dalla visione della mostra fotografica “101 Scorie Zen” nasce quasi spontanea una riflessione sull’invisibile, su quanto è manifesto ma sembra non voler essere visto da terze parti. Parliamo di rifiuti, ma potremmo esprimerci allo stesso modo in merito ai traumi o a quanto trova vita al di là del mare, sulla spiaggia dell’inconscio. Ecco, il concetto di scarto evidenziato dalla mostra, di quanto da s-velato, viene coperto dall’indifferenza, reso invisibile, ha qualcosa a che fare con la tua professione di psicoterapeuta?
La domanda mi spiazza e dunque l’apprezzo. Mi costringe a riflettere come tutte le domande legittime. Forse l’inconscio, però, mi appare più come l’oceano tempestoso, la profondità numinosa, che talvolta porta alla riva dell’ego, sull’arenile del visibile, aspetti sommersi ma non ancora persi, dissolti. In questo senso lo psicoterapeuta (artista) può umilmente proporre al cliente (fruitore) di riappropriarsi di questi frammenti sparsi, di queste scorie non digerite, di queste rimosse spoglie, per ritrovarne la bellezza nascosta o per imparare a metabolizzare, a farne oggetto di parola. In questo senso la presenza dell’haiku, della parola poetica, soprattutto nella sua eccentricità rispetto alle immagini, aiuta a ri-simbolizzare quanto era caduto nell’indifferenziato. Le scorie zen parlano dell’impermanenza, di ciò che sta per sparire. La stessa sabbia è la polvere in cui ogni roccia muterà. I granelli, le piume, i fogli stropicciati si sposteranno fra un attimo con il primo alito di vento. Possiamo guardare ciò senza averne paura, senza scappare.

Si dice che per conoscere qualcuno sia sufficiente sapere cosa getta via. Credi valga lo stesso per una società come la nostra? Quale riflessione propone quello che la nostra società identifica – anche in termini di materiale umano – come inutile e scartato?
La nostra società è già dentro il collasso. La nostra specie è sull’orlo di distruggere il pianeta, fregandosene dei miliardi di esseri viventi, animali, minerali, vegetali che la compongono. L’invito è di adottare una postura di maggiore umiltà verso la Terra. In questa novella cosmogonia le appartenenze al mondo vegetale, animale e minerale diventano lievemente superflue perché vediamo solo vita che si trasforma e, a rigore, non c’è alcun motivo di preferire qualcuno a qualcosa. Si può amare un uomo come ci si può estasiare di fronte alla buccia d’arancia o sentirsi attratti dalla danza di una strapazzata plastica trasparente. La presenza arrogante della tecnologia, dell’idea di sviluppo (anche quando apparentemente mitigata dall’attributo “sostenibile”), del dissolvimento e abdicazione da modalità di comunicazione che alimentino il pensiero critico, genera come principale scarto il disorientamento e la perdita del legame comunitario. La poesia e l’arte cercano tra questi scarti per riequilibrare la partita. Non so se sia ormai tardi.

In che modo la tua terra d’origine ha influenzato la tua produzione artistica?
Non saprei. Tutto quello che faccio mi sembra legato alla mia identità insulare, alla mia distanza dai centri di potere economico e persino dal mercato culturale. La spiaggia, i rifiuti, la povertà, l’arte, sono il paesaggio nel quale sempre sto immerso. I miei occhi sono da sempre colmi di questi paesaggi. Gli eventi che vivo, gli incontri che faccio, provano a legarli in forme nuove, impensabili prima. Io stesso me ne stupisco.

 

INTERVISTA DI PASQUALE SBRIZZI E LUCA TAMMARO