Leggersi tra le righe di un romanzo è sempre un’esperienza unica e liberatoria. Con Albicocche al Miele Elisa Pellegrino riesce a raccogliere l’esperienza di una generazione di italiane e italiani, ma il suo percorso parte dai social.

Da dove nasce il progetto di Cortomiraggi e come si è evoluto negli anni?
Nel 2014 ho aperto una pagina Facebook dove caricavo citazioni di film e libri, magari aggiungevo un commento. Scoprii subito un interesse nel trovare persone con gusti simili ai miei, ho sempre avuto una passione per il cinema indipendente e mi piaceva ci fosse uno scambio su queste pellicole che non erano popolari. Ora è molto diverso, però circa 10 anni fa, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, ad esempio, era conosciuto ma neanche così tanto. Era quel filone che mi appassionava e trovavo persone che mi davano consigli, mi facevano crescere.
Quando sono passata ad Instagram penso di essere arrivata in un momento in cui mancava questo tipo di profilo. All’inizio non volevo perché avevo timore di diventare un personaggio e volevo mantenere la mia dimensione testuale.
Invece mi ha premiato essere coerente con me stessa e ho mostrato il viso solo dopo che Albicocche al Miele è stato pubblicato perché ho ritenuto fosse opportuno.
Anche adesso non ho cambiato modalità. Faccio quello che facevo prima, solo che nelle occasioni in cui è più comodo parlare, mi piace poterlo fare.

Qual è il film o la serie tv che ti hanno folgorato?
Penso sia successo proprio con il cinema indipendente americano in generale. Qualunque film uscisse da quel filone io mi sentivo legata. Probabilmente la più forte è stata la trilogia dei Before di Linklater: il linguaggio, l’intimità molto pacata e i discorsi che venivano fuori sul senso della vita, è stato bello trovare un tipo di modo di raccontarsi che mi sembrava simile a me.
Rivendendoli a distanza di anni ci vedo cose diverse, anche perché sono girati a distanza di 9 anni l’uno dall’altro – e raccontano fasi diverse della vita – e io crescendo ho sentito più vicino magari l’ultimo, mentre all’inizio era il primo, e adesso forse è il secondo quello che mi piace di più.
Come serie TV ho visto tanto Scrubs e Una Mamma Per Amica, e mi piaceva la familiarità perché quando accendevi la TV c’erano sempre. Più di recente ti direi Fleabag che ha segnato un passaggio importante ma anche Normal People o in generale i libri di Sally Rooney. Non è il mio tipo di scrittura preferito ma adoro quello di cui parla.

Che valore dai come giornalista e blogger agli Oscar?
A me piace molto il momento delle nomination, perché ritengo che ci siano sempre opere valide, sul piano tecnico o “oggettivo”. Mi interessano più le nomination della premiazione anche se penso abbia un peso premiare una cosa piuttosto che un’altra.
Quest’anno ha vinto Coda che è un film interpretato da persone sorde. Il film in sé non è niente di nuovo a livello di trama, però forse è importante sul piano della rappresentazione. Il fatto che vinca magari spinge una produzione nuova, un modo diverso di raccontare. O anche La Persona Peggiore del Mondo, nominato come miglior sceneggiatura originale, ed è bellissima questa cosa perché anche un film di nicchia se va agli Oscar ha un pubblico maggiore.
Mi risulta più interessante vedere i film che vengono presentati a i festival.
Ad esempio, a Udine il “Far East Film Festival”, un festival di cinema asiatico dove gli autori presentano i loro film: registi coreani, giapponesi, indonesiani e sono film che non vedresti in altre occasioni.
Questo è molto più stimolante perché offre una visione molto concreta. Vedi il film, ascolti e parli con il regista – anche per questo mi piace di più il cinema indipendente.

Cosa ti ha spinto a scrivere un romanzo per Albicocche al Miele? Perché non una sceneggiatura?
Innanzitutto perché scrivere è un lavoro solitario, mentre la sceneggiatura è comunque un lavoro di gruppo. Mi sentivo più adatta in questo momento a fare un romanzo.
Anche se poi le storie all’interno del romanzo sono legate, in realtà è un po’ una raccolta di racconti camuffata perché ci sono 4 punti di vista diversi che si incontrano. La forma del racconto è quella in cui mi sento più a mio agio perché mi permette di mostrare i personaggi usando dei momenti particolari.
Ho potuto mostrarli all’interno del libro come simili ma con personalità e reazioni diverse e mi piaceva questo piuttosto che andare a fondo su un solo personaggio. Del passato c’è poco, a me interessava il momento.
La brevità di sicuro mi caratterizza, anche nei commenti ai film o ai libri, mi dilungo solo se ne sento il bisogno.

Cosa ne pensi della questione generazionale che hai esplorato all’interno del
romanzo?
La nostra società viene spesso definita come la Società della performance, come se fossimo dei prodotti. Dobbiamo essere in grado di massimizzare le nostre risorse e se non ci sentiamo abbastanza sul pezzo viene a intaccarsi la nostra autostima.
E poi c’è questa sensazione del ritardo generico.
Quando non riusciamo a tenere il passo, guardiamo agli altri che sembrano riuscirci. Questo confronto costante ci fa vivere come se dovessimo riempire delle caselle. Io ho sentito un po’ questo tipo di pressione che per fortuna si affievolisce una volta finito un percorso più prestabilito come scuola, università e l’inizio del lavoro. Ognuno ha i suoi tempi e il suo modo di essere. Volevo rappresentare come sia comune questo modo di sentirsi e anche chi sembra essere in linea ha i suoi problemi.
Siamo anche la generazione Erasmus, con l’elemento della distanza che ci fa soffrire per i legami che si spezzettano. Magari dopo aver vissuto nella stessa città e fatto molte cose insieme poi non ci si vede più. Diventa faticoso quando stai crescendo.
Anche nel libro i personaggi si dividono dopo aver vissuto nella stessa città.
Un po’ come il finale di La La Land: le relazioni e i legami oppure te stesso e la carriera, come se ci fosse per forza un motivo che ti obbliga a fare una scelta. Magari possono convivere le due scelte e in realtà ce ne sono molte altre.

In futuro ti vedi come sceneggiatrice/regista?
Sarebbe bello in effetti. Lo trovo un lavoro molto artigianale, ci sono tanti pezzetti da unire.
C’è l’autore ma ci sono tante altre persone che collaborano per creare un’opera. Adesso non credo che sia quella la mia aspirazione ma in futuro mi piacerebbe molto.

Un film che consiglieresti ad un’amante della poesia?
Paterson di Jim Jarmusch, un film che parla di un poeta e che riesce ad essere un’ode della vita quotidiana nelle cose più piccole, con un ritorno di simboli che diventano come figure retoriche.
Un altro è La Tartaruga Rossa che ha qualcosa di magico dentro. Forse l’animazione veicola facilmente questo tipo di sensazione grazie all’ irreale che ti distanzia un po’ dalla vita vera e crea un’altra dimensione.
Più in generale anche l’animazione giapponese, come Miyazaki, che ha questo dono, come con il Castello Errante di Howl. Al di là di quel che racconta, dà una pace che magari non capisci fino in fondo, oppure una turbolenza interiore che non sai bene da cosa arriva e forse lo scopri dopo, che è un po’ la magia che sta dietro.

La pagina di Cortomiraggi è una congiunzione di Film, Musica e Letteratura, funziona come un diario sull’arte?
Per un periodo cercavo di essere sempre informata sulle ultime uscite e scrivevo molto di più. E penso entrasse nella mentalità di cui parlavamo prima di dover essere sempre performanti. Questa è una fase che ho attraversato e mi ha portato a fare una selezione maggiore per portare cose che mi piacciono, quindi direi di sì. Mi concedo più spazi per parlare liberamente di ciò che mi piace e che vorrei esplorare.
Secondo me fare meno è meglio in questo caso perché prima avevo la sensazione di essere diventata un contenitore di cose un po’ a caso. C’è stato un momento in cui ho realizzato che non aveva più senso in quel modo e ho deciso di cambiare.

Che ruolo gioca l’essenzialità quando scrivi e quando sei spettatrice/lettrice?
Mi sono accorta che spesso le cose devono sedimentare e non sono in grado di dare subito un’opinione su quello che ho visto. Ha più valore quando riesci a crearci un ragionamento o a costruire un’emozione: magari ci vogliono mesi prima che riesca a dire qualcosa e preferisco sia così.
Meglio aspettare tanto, anche se il film non è più al cinema, ma esprimermi quando sento di avere qualcosa da dire. Preferisco poco ma con un senso, e credo che nella scrittura si applichi lo stesso ragionamento.
Ad esempio, la prima parte l’ho tagliuzzata tantissimo perché ero sicura di dover spiegare meglio alcune cose. Andando avanti ho smesso di farlo e ho preferito mostrare, perché è un libro molto visivo secondo me, le riflessioni escono dai dialoghi o da come i personaggi si muovono. Mi sento più io quando faccio qualcosa di breve.
Mi piace anche Sorrentino che nel suo ultimo film è riuscito a fare entrambe le cose, dando spazio a molta ricchezza sia nei contenuti che nei toni e poi è riuscito a condensare in poche parole di un dialogo quello che effettivamente è tutto il racconto del film.
Questo probabilmente è il massimo secondo me, essere entrambe le cose in un modo che diventi quasi universale, diventando la sintesi dell’essenziale con tutto il resto.

 

                                                                       ALESSANDRO DI PORZIO