Mettiamola così: in Sade, come in generale nei libertini francesi, la pornografia è ampiamente utilizzata per veicolare contenuti filosofici; ora, così come è chiaro che è idiota leggere Sade solo per le orge, è altrettanto idiota leggerlo solo per la filosofia.

In questo libro troverete molte informazioni sul porno.
Più specificatamente, su una pornoattrice, Annette Schwarz.
Il narratore vi dirà molto su di lei, anche se una grossa parte sono drammatizzazioni per colmare vuoti d’informazioni sulla vita della sua artista preferita. La narrazione è animata dalla necessità di avere un quadro completo della carriera di Annette Schwarz che non ha, per ovvi motivi legati all’ossessione dei fan, divulgato poi molto. Di quest’ironia è consapevole il narratore: sa che la sua monomania è anche una pulsione a scoprire, a entrare in contatto con una figura evanescente, la cui spettacolarizzazione è parte integrante del suo fascino (e togliere il velo dello spettacolo invaliderà anche il fascino stesso). Il fatto che non siano tutte informazioni reali è parte della tensione tra la forma romanzo e la forma saggio, una tensione che viene interiorizzata proprio parlando della pornografia. Il porno è un misto fra possibile e impossibile, e in questo sta il suo significato, grazie al quale diventa una cifra per analizzare l’avvilimento e l’anedonia di cui soffre il narratore.

Lui si àncora nella caverna platoniana: le ombre, con la loro inconsistenza, possono essere descritte, riempite, ci si può scendere quasi a patti; soprattutto, possono dare più stimoli al cervello di quanto non faccia la realtà inequivocabile.

In questa caverna, però, la forma delle ombre non è casuale. Il fuoco dei vari algoritmi le orienta per far vedere quel che attirerà, quasi sicuramente, l’attenzione del fruitore: costruirà quel che l’utente vuole mentre ne indirizza i desideri sfruttando l’offerta del catalogo.

Il punto non è la forma della dipendenza – del divertissement di turno– quindi, ma che ognuno di noi abbia bisogno di una dipendenza per sopravvivere.
Questo perché una dipendenza è un postponimento che non si esaurisce mai, costruisce un significato che sembra stare su due piedi e che soprattutto non necessita di una vera e propria fine; o come dice il romanzo: “la tensione verso l’irragiungibile mi spinge ad andare avanti, perché se la raggiungessi non saprei che farmene.”

Il romanzo sembra dirci che dobbiamo essere consapevoli che la nostra romanticizzazione, idealizzazione e spettralizzazione della realtà, del nostro corpo e del nostro piacere possono costarci la vita. Forse non nel senso immediato e esplodi-cervello che vi è venuto in mente appena avete letto “costare la vita”, ma in uno più subdolo e sostenibile.
Infatti, nonostante il narratore abbia una genuina ammirazione per la visione artistica e le capacità attoriali di Annette, quando si ritrova ad intervistarla, quel che ottiene da quell’esperienza è bruttezza e insoddisfazione.
In fin dei conti, lei era la virtuosa il cui talento voleva immortalare con questo romanzo autoironico e analitico, ma non ha saputo reggere il confronto con la sua pubescente idealizzazione. Le ultime pagine, che raccontano l’incontro con Schwarz e il susseguente ritorno a casa, sono animate da amarezza, delusione e da un desiderio di chiudersi nel proprio mondo dall’illuminazione settabile.
Al netto di scene che probabilmente vostra nonna, al leggergliele ad alta voce, sbiancherebbe e vi manderebbe di corsa a confessarvi, troverete anche pensieri sepolcrali, insofferenza verso lo scialbo ripetersi della vita, riflessioni sulla responsività del mondo, in quel che, in fin dei conti, non era “altro che un sogno“:

Nel lavoro di Annette si ha l’impressione di assistere, in certi momenti, in certe espressioni di piacere o di divertimento, ad attimi in cui emerge la verità – su quell’atto, su Annette stessa; e il cortocircuito con l’artificialità in cui questo momento ha luogo è la cosa più importante di tutte, perché unisce il possibile di un piacere fisico che riconosciamo come reale all’impossibile delle circostanze entro cui questo avviene. Se l’artificio del porno serve a separare il sesso dalla nostra esperienza quotidiana e così ad assolutizzarlo e a eternarlo, vedervi un lampo di realtà, come capita così spesso nel lavoro di Annette, ci indica che l’impossibile a cui assistiamo potrebbe essere possibile, in determinate circostanze, anche se non ci sogneremmo mai di metterlo in pratica; ci fa continuare a sperare e a sognare.[…] In quelle poche decine di secondi, Annette si trasforma per me in una figura dell’impossibile, in un ossimoro fatto di falsità e realtà – e cosa importa, poi, se questa realtà non è reale? Perché in fondo amare significa desiderare di essere ingannati.

Interessante è anche l’intromissione del narratore nel filo della narrazione.
Verso metà del romanzo, ci viene spiegato il metodo gonzo di usare una videocamera.
Per chi non lo sapesse, il cameraperson gira con una videocamera a mano, e, in parte, buca la quarta parente entrando di fatto sulla scena. Inoltre, non ci sono tagli e le transizioni tra le scene sono lasciate all’estro di chi opera la camera.
Il romanzo fa un ottimo lavoro nell’usare questa tecnica.
Di continuo, il narratore interrompe la storia di Annette Schwarz per raccontarci un episodio della sua vita che entra in risonanza, per darci una sua direzione di lettura o semplicemente per ricordarci che dietro la penna c’è un essere umano che soffre e non riesce a non affogarci dentro.
Abbondano, però, momenti ironici e leggeri.
L’analisi dell’agentività di Annette è uno dei punti fermi dell’opera: è lei a decidere e desiderare la sua carriera, a dare suggerimenti ai registi, e, durante la collaborazione con Mason o nel breve periodo da indipendente, costruire le scene.
Per il narratore di Malvestio, Annette, quando è protagonista di pratiche come il pissing, anche se apparentemente sta lasciando che il suo corpo venga offeso, in realtà sta affermando la propria libertà di vivere la sessualità con quanta perversione desidera. E anche l’attore di turno può fare quel che fa perché Annette (o chi per lei) si presta all’altalena del porno.
La vera forza decisionale, quindi, è nelle sue mani, e il narratore si diverte a più riprese a mostrarci una mascolinità incapace di rapportarsi a tanta sicurezza, spontaneità e perversione.

La concezione del sogno, che fa da falsariga a tutta la narrazione, si tramuta da cornice auto-ironica (simbolo di qualcosa che è finzione ma prodotto della realtà) in qualcosa di ingannevole per natura, che porta il narratore a viaggiare – su internet e su ruote – per poi ritrovarsi ad aver fatto tanta strada per nulla. E l’ultimo, sospirato, “è stato tutto un sogno, penso, fuggendo da Monaco nella luce del crepuscolo; ma non ho avuto niente di meglio” è il momento di addio.
Addio ad Annette, addio alla monomania scrittoria, alle elucubrazioni pruriginose, ma soprattutto, addio alla dimensione del sogno, con tutti i suoi tratti rivelatori, la cui indefinitezza ci spinge – o ossessiona – nel trovare un senso definitivo; una battaglia persa in partenza.
Eppure, è il meglio che ci rimane.

Alessandro Di Porzio