“Sciocchezze! Deliqui! E’ evidente che è permesso, è vero, che gli individui abbandonino momentaneamente le case per praticare lo sport, o anche semplicemente per giovare degli effetti benefici, è vero, dell’aria fresca e di una moderata quantità di moto! Come può essere, e faccio l’esempio più scontato e lampante, è vero, quella derivante dal compiere, molto semplicemente, è vero, un banale giro del caseggiato!”
L’anziano uomo fece per portare la mano alla lunga barba canuta con aria soddisfatta, ma dovette interrompersi subito per precipitarsi ad aggiungere: “Naturalmente nel massimo rispetto e non ci sarebbe bisogno di specificarlo, è vero, delle Norme di sicurezza prescritte dalla…”
“Non ci sarebbe bisogno un corno!”
La tardiva aggiunta non salvò il vecchio dal feroce intervento di un altro venerabile, che dal primo si distingueva per lo più per la dignitosa frugalità delle vesti e per una vistosa dissimetria fra la lunga barba e il cranio perfettamente tosato.
“Questa dottrina imprudente è la chiara ragione della persistenza del Flagello! Anche una scimmia del deserto lo capirebbe se pure glielo spiegasse un asino zoppo, le Scritture sono chiare! Chiare!”
“Cessa questo turpiloquio, è vero, razza di vagabondo!” Il primo vecchio, lo chiameremo a questo punto Claristanio giacchè tale era il suo nome, piazzò uno sguardo furente dritto in faccia al secondo, che per la stessa ragione chiameremo Patogromenas, e che con pupille non meno tempestose rispose fieramente al gioco di occhiate.
Negli occhi dei due ermeneuti bruciavano quasi due secoli di conflitto fratricida fra le Scuole di Oriente e Occidente, fra gli autoproclamati Decernostois e i Filonormattici. Come ormai era diventato difficile ricordare il mondo prima del Morbo, altrettanto sfibrante risultava richiamare alla memoria quel breve lasso di tempo, una manciata di decine d’anni, forse un secolo scarso, in cui studiosi, sapienti, giureconsulti, ermeneuti, decodificatori, teocerusici e filoigeti di tutto l’orbe terracqueo conosciuto avevano trovato accordo almeno parziale sull’interpretazione delle Regole.
Il Sacro Decreto Sanitario, che agli uomini era giunto nel tempo della grande Confusione Morbosa in vie misteriose che la stessa Confusione non permise di restituire alle cronache e oggetto anch’esse di profonde discussioni, infatti era agli occhi di chiunque possedesse barlume d’intelletto tanto necessariamente saggio e salvifico, inevitabile e imprescindibile, quanto era, purtroppo, e ci si doleva tanto nel constatarlo se solo si paragonava questa triste verità alla grande e inscalfibile Prudenza onnisciente che amorevolmente lo aveva prodotto e proporzionato all’umanità, ambiguo e confuso su alcuni cruciali e fondamentali punti di esiziale importanza. Da subito, ed è corretto e naturale che così sia in una società intelligente ed accorta alla propria Salute, il dibattito sulla corretta interpretazione delle Leggi era stato assorbito da un dotto agone di sapienti, ermeneuti ed interpreti d’esperienza di testi, conoscenze, pratiche sapienziali, medicali, naturalistiche, sottraendolo così alla confusa congerie di interpretazioni fantasiose a cui tutti gli abitanti si abbandonavano con leggerezza.
Tanto più che, nell’isolamento prescritto dall interpretazione più rigorosa degli Insegnamenti, che com’è giusto e naturale subito fu imposta dagli scampoli di autorità secolare che ancora esercitavano potere e giurisdizione sulle terre abitate nella comprensibile urgenza di traghettare i popoli fuori dalla Nefastezza Morbosa, avendo in abbondanza tempo da investire ogni abitante, anche il più ignorante e stolido, lietamente congetturava e si lanciava in fantasiose interpretazioni della Legge, diffondendole poi imprudentemente di balcone in balcone, di finestra in finestra o, per coloro che ancora erano tenuti al lavoro coatto, di campo in campo. E questo caos sarebbe perdurato, inquinando e impossibilitando la proficua applicazione dei Principi, se per l’appunto il generale complesso dei sapienti e degli eruditi tutti non avesse d’autorità precettato, in qualche modo requisito, la legittimità di elucubrare e teorizzare sulle corrette interpretazioni dei Testi, creando scuole, collegi, accademie, concistori, circoli di studio dove tutto s’esauriva, internamente alle schiere dei sapienti, l’ampio spazio del dibattito intorno alla corretta applicazione delle Regole e alla nascente scienza filoigetica.
E se negli anni della Grande Morìa Epidemica concorde e laborioso fu lo sforzo congiunto nell’estrapolazione dai Dettami delle giuste regole di profilassi sanitaria che sole potevano arginare il letale diffondersi della Malattia, poco ci volle, dopo l’esaurirsi del Picco e il ritorno della Malattia non già ad uno stato di quiescenza ma ad un livello costante e quasi controllabile che lentamente favorì il risorgere della civiltà, perché dotti e nosoconsulti iniziassero a divergere sulle libertà e gli spazi d’azione che allora era da considerare compatibili con il controllo dell’Infezione e l’incessante lotta verso la sua definitiva sconfitta.
Fu più o meno allora, qualche lustro dopo il termine dell’Ecatombe Pestifera, che piuttosto rapidamente emerse da parte dei cerusici e dei giuristi dei nuovi Asclepiati del continente un atteggiamento di crescente liberalità e quasi, o almeno così avrebbero detto i loro detrattori, edonismo che sempre più esplicitamente li spingeva a sostenere la possibilità di un lento ritorno, seppure con le imperative e totalizzanti limitazioni imposte dalla perduranza del Malanno, a talune libertà di movimento.
Ed a questo nuovo insegnamento che si proponeva, coloro che vi erano contrari, perlopiù i dotti afferenti ai territori del nuovo Arcontato orientale, ove, del resto, più che in ogni altra terra si era subita e si subiva la mannaia del Malessere, si rispose con niente di meno che un ulteriore indurimento delle proposizioni e della dottrina; al punto che, se anche rimaneva maggioritaria in Oriente l’interpretazione tradizionale dei Precetti e la concezione dell’abbandono del domicilio come possibilità concessa o anzi dovuta nei casi di emergenza, necessità, approvvigionamento e obbligo al lavoro, non tardò a diffondersi una concezione,  dai più giudicata eretica anche in terra d’Oriente, che proibiva categoricamente e sotto ogni circostanza l’abbandono del tetto o l’allontanamento dall’uscio, ed essa era detta Autonosica, mentre altre e varie dottrine eretiche si diffusero in ogni terra abitata dagli uomini. Fu non tanto per il diffondersi dell’Autonosia, quanto per il più generale dissidio riguardo alla libertà di movimento dei singoli, che non tardò a maturarsi un profondo Scisma che nei testi fu ricordato come Grande Divisione Longitudinale, in seguito a cui scuole e accademie d’Oriente e Occidente ebbero grosse difficoltà e in fondo ben poca voglia di confrontarsi, ben spalleggiate da popoli col tempo abituati a vivere secondo dettami che un occhio esterno forse avrebbe giudicato non troppo dissimili, ma che per gli interessati erano agli antipodi come lo sono il Continente Algido e le aride Distese, se ci è concesso per amore di comprensibilità uno sciocco paragone geografico.
Era quindi in breve questo il logorante pregresso che nel profondo animava i due dottori allorquando si fissavano bellicosamente nella grande sala adibita al Concilio Sanificante del 223 D.M, inscenando ancora una volta il dissidio che generazioni di studiosi avevano portato avanti a suon di invettive, libelli, saggi, prolusioni, decaloghi.

Chissà dove la contesa avrebbe potuto portare i saggi uomini se non fosse stato per l’intervento pacificatore di Corsidio, il servile Opico Maggiore del Dominato Continentale.
“Consapienti, dottori, saggi, prego loro moderazione! Non necessitiamo in questa salubre sede una tale asprezza di toni e apostrofamenti!” Il pingue uomo prese prese fiato e iniziò a parlare gesticolando ampiamente, dapprima con misura affettata, poi con parole sempre più rapide e gesti più scoordinati: “D’altronde è certamente evidente a tutti loro chiarissimi dotti l’importanza di questo incontro, voluto tanto dal mio Signore il Sacro Taumatore Continentale e da tutti gli Asclepi che degnamente rappresenta, quanto dal Supremo Arconte d’Oriente; giacché in una società ogni giorno più moderna e intraprendente, prossima a riscoprire le Grandi Vie del Negozio per come le praticavano e percorrevano gli Antichi del Pre-Morbo in lungo e in largo per valli, mari e monti del nostro bel globo terracqueo, da più e più parti oggi si chiede a voi, chiarissimi e illuminatissimi saggi conoscitori e custodi dei Testi, di trovare quantomeno una forma di accordo, sì insomma, una sintesi per così dire, che permetta all’umanità tutta di orientarsi chiaramente nella certezza del Diritto e dell’efficienza sanificatrice voluta dalle sacre Prescrizioni sanitarie, si capisce, ma anche di lasciare che le persone lentamente riprendano a praticare talune, certamente nella misura più prudente e compatibile con le Norme, delle abitudini che un tempo permettevano al grande Impero Pre-Morbo di prosperare e godere dei frutti del Negozio, della consumazione di prodotti e beni che oggi tuttavia esistono ma vieppiù giacciono nell’abbandono e nell’impossibilità della condivisione e distribuzione negoziale, pubblica e privata, soprattutto, sicuramente e non credo di fare torto a nessuno nel ricordarlo in questa sede, all’interno dei territori dell’Arcontato Orientale…”
“Ah! Si frantuma al fine la maschera dell’ipocrisia occidentale! Questo Concilio intero non è che una farsa, una recita per minare la rettitudine della salubre devozione delle genti dell’Est, perdipiù con la surrettizia approvazione dell’Arcontato! Ah, quella serpe eretica sul suo trono di infettitudine…”
Patogromenas non ebbe tempo di completare l’accusa che venne interrotto dalle più dure parole di sfida:
“Tacete, stolti interpreti di teorie pusillanimi! “
Esse provenivano da una bocca seminascosta da una barba incolta, piantata in una faccia da lineamenti volitivi, incorniciata da una massa di capelli crespi, che avanzava nell’ampia sala sorretta dal corpo robusto e rivestito poco più che da stracci di Orbatas, il famigerato eresiarca delle isole la cui esistenza, fra le genti più civilizzate d’Occidente, quasi era considerata materia di leggenda. Non invitato, l’ermeneuta ribelle era in qualche modo pervenuto al dotto concilio e ora scagliava le sue parole di fuoco sull’assemblea fra il brusio dei sapienti assisi:
“Uscire si può, uscire anzi si deve finché non ci si accompagna ad alcuno e le distanze con il prossimo ed ogni superficie immonda ammontano ad almeno 2 bracci! Nelle squallide stanze in cui pietosamente provate a sfuggire il Morbo allignano solo i vapori mefitici della Malattia e le impurità dello Spirito, mentre solo nell’influsso benefico della Luce e dell’Aria, nel riscaldamento dei fluidi corporei tramite la motilità, nella contemplazione attiva della perfezione dell’Opera Creatrice, risiedono la Purezza e la Salubrità del corpo e dello Spirito! Sconfiggere
definitivamente il Morbo si può…”
“Silenzio, eretico! Cessa di lordare con la tua dottrina esecranda la sanità di questa assemblea!”
Tacquero, mentre i loro sguardi si spostavano dove tutte le paia d’occhi della sala, un attimo prima catturate dall’oratoria dei contendenti, si erano spostate all’unisono.

Un Cerusico Minimo del Nord-Ovest sedeva in un angolo dell’ampia sala, con la faccia affondata nel gomito sinistro, il corpo tremendamente scosso da violenti, rumorosi attacchi di tosse secca.

L’episodio è riferito da un cronista anonimo nel capitolo quinto della ‘Cronaca del Concilio Filoigetico Terzo’, scritta probabilmente intorno al 228 D.M e sfortunatamente non pervenuta ai giorni nostri. La versione qui riportata, con qualche rimaneggiamento, è quella che Barlodio propone, ricavandola a sua volta da fonti indirette, all’interno del suo ‘Historia raccontata e dettagliatamente riportata della Seconda Crisi Morbica’, 615 D.M.

Sergio Sciambra