Delirium Tremens.

Francesco affondava i denti color ottone e catrame nella fragrante crosta di un gigantesco hamburger farcito con triplo bacon e quadruplo cheddar: un abominio di carne grassa e farinacei artificiali che, ad ogni morso, secerneva densi rivoli ocra che lordavano il piatto sottostante di ittero butirroso. Mezzo litro di cola accompagnava l’enorme panino, e la carcassa di carta oleosa di una porzione king size di patatine fritte giaceva accartocciata sul tavolo sudicio di salse industriali, intingoli chimici che le mosche, attirate dagli aromi sintetici, piluccavano saporitamente con le loro proboscidi affamate.
I muri ammuffiti della cucina, imbruniti dall’incuria, squittivano e pigolavano scricchiolii, uniformandosi ai lamenti di sforzo e sofferenza della sedia su cui poggiava il pachidermico sedere di Francesco. Lui, con devozione da zelota, ordinava ormai da anni la stessa, identica cena presso la sua paninoteca preferita, il Delirium Tremens, quel paradiso di ambrosia e trigliceridi che lo nutriva ogni sera comodamente a domicilio, risparmiandogli anche i seicentotrentanove metri di percorso a piedi che li separavano. Il corpo di Francesco era un eloquente testimone di questo suo rituale alimentare: l’ultimo calcolo della bilancia, la cui data si smarriva ormai in remoti eoni antidiluviani, aveva segnato ben centottantuno chilogrammi per un metro e settantadue d’altezza. Malgrado gli fosse stato diagnosticato il diabete di tipo due all’età di quarantaquattro anni e avesse scorto il volto della Morte per un infarto a quarantasei, la gravità delle sue condizioni fisiche spaventevoli sembrava non impensierirlo: la sua devozione cieca al Ghiottone, l’hamburger speciale del Delirium Tremens, aveva infatti prevalso su di essa con incredibile facilità. L’idea di farsi prescrivere una dieta dimagrante da un nutrizionista o, perlomeno, di darsi semplicemente una regolata non gli era mai passata nemmeno per l’anticamera del cervello. Ciononostante, sebbene l’amore folle per il Ghiottone del Delirium Tremens potesse farlo apparire come un ingordo vittima di uno stomaco fuori controllo, Francesco restava ferreamente fedele al suo inossidabile, adamantino dogma alimentare: si limitava, infatti, al consumo quotidiano di un solo esemplare, perché riteneva che prendere più Ghiottoni avrebbe intaccato la sacralità della sua personale pseudoeucaristia.
Quando, quella sera, si rese conto di essere giunto all’ultimo boccone di panino, come tutte le volte, Francesco si sentì affranto e triste: quell’esperienza sublime come l’aria di un’orchestra di cherubini si era tramutata di nuovo in un bolo indistinto di materia organica da digerire ed espellere, in un asettico, freddo apporto calorico di quattro cifre. L’uomo, incupito da questo amaro assioma, ficcò in bocca ciò che restava del Ghiottone e gettò il cartoccio bisunto delle patatine nella pattumiera, poi, un ultimo, lungo sorso zuccherino e caramelloso di cola dal retrogusto putrido di carie con successivo rutto sancì l’epilogo del pasto serale. Dopo una doccia di venti minuti, Francesco ingollò il suo abituale pugno multicolore di pillole e compresse e si infilò sotto le coperte. Impostò la sveglia dello smartphone per le sei e quarantacinque del mattino, l’ora del risveglio per andare a lavoro.
Quando Francesco riaprì gli occhi, con largo e sostanziale anticipo, le doghe scheggiate del letto sfondato avevano perforato materasso, fegato, polmone sinistro e milza.

Pasquale Sbrizzi