Due vite di Emanuele Trevi: due esistenze a confronto nel romanzo vincitore del Premio Strega
La scrittura è catarsi. Lo sa bene Emanuele Trevi, l’autore che quest’anno ha vinto il Premio Strega, quando in Due vite affronta il dolore della morte di due suoi amici, due scrittori come lui, Rocco Carbone e Pia Pera; attraverso la scrittura e la rievocazione di stralci di vita in comune e indagando la personalità dei due protagonisti costituisce il nucleo del suo romanzo, dolente e gioioso al contempo. La paura della morte è ancestrale, atavica, appartiene a quell’eredità lasciataci dai nostri antenati primitivi che risiede nell’inconscio collettivo, lo spazio della psiche studiato da Jung. Ma se è vero che la morte spaventa perché è assenza di vita, è però anche vero che essa può costituire il seme per la creazione di qualcosa di nuovo ed alternativo: esiste uno slancio vitale anche nella morte, attraverso la quale la vita può riemergere, rinascere in un ciclo continuo ed infinito. L’assenza di chi ci è caro può infatti diventare il motore propulsore per l’accesso ad una nuova dimensione esistenziale più consapevole e cosciente di sé.
Se poi il mezzo utilizzato per l’elaborazione del dolore è quello della scrittura, allora non stupiscono l’umanità e la sincerità di un autore come Trevi, che affida al suo romanzo il compito di onorare la memoria di Rocco Carbone e Pia Pera e, al contempo, riconoscere ed accettare la sofferenza che deriva dall’assenza di due suoi compagni di vita.
Il titolo di questo romanzo è eloquente: due sono le vite, le esistenze messe a confronto e raccontate al lettore, che è così trascinato nei ricordi dell’autore e in quegli aneddoti di vita che lo mettono in condizione di ricostruire i tratti caratteristici delle due personalità descritte dalla penna dell’autore. Assediato da Furie e demoni interiori l’uno, pacata e malinconica l’altra, i due amici hanno in comune la costante attitudine alla lotta, nonostante i nemici siano diversi: per Rocco Carbone la sfida è contro la sua stessa mente, caotica e disordinata al punto da arrivare a vere e proprie crisi maniacali e il cui impeto è bilanciato dalla volontà di ordine e pulizia, dall’esattezza della parola che emerge dai suoi romanzi; Pia Pera combatte invece contro un nemico più subdolo, la SLA, la malattia che giorno dopo giorno le ruba l’indipendenza, quella libertà conquistata attraverso la rilevazione di un podere nel lucchese e il contatto quotidiano con la Natura. E in effetti l’immagine usata da Trevi per descrivere il suo percorso spirituale fino alla morte è quella di un giardino, in cui dal sottosuolo, se si è in grado di entrare in contatto con la parte “vegetativa” dell’anima, quella comune ad ogni elemento del cosmo, può nascere rigogliosa la vita.
Utilizzando come espediente stilistico quello che Luca Mastrantonio definisce come “prosa d’arte umanissima, quasi prosa d’anima” (Luca Mastrantonio, Sette), il racconto della vita e dell’interiorità di questi due personaggi passa attraverso l’utilizzo di uno stile scorrevole ed intimista, in cui la fluidità e la leggerezza della parola sono lo strumento migliore per accedere alla dimensione del ricordo e alla ricerca interiore e spirituale, che conferiscono al romanzo la sua peculiare tonalità emotiva.
Quella utilizzata da Trevi è d’altronde una trovata stilistica che al lettore appassionato di letteratura può facilmente ricordare quella del monologo interiore di sveviana memoria; in Svevo era però evidente, specialmente ne La coscienza di Zeno, l’influenza della psicoanalisi come metodo di lettura della realtà, come cifra necessaria all’interpretazione della malattia, elemento proprio del mondo interiore ma anche esterno al sé, che confluiva stilisticamente nell’utilizzo del monologo interiore. Nel caso di Trevi, invece, la prosa d’arte può essere considerata come un modo per accedere alla dimensione inconscia, un veicolo di approdo ad una zona interiore oscura e indecifrabile se non illuminata dalla luce della scrittura, il cui oggetto non sono più i pensieri del narratore malati e contraddittori, messi in scena ne La coscienza di Zeno nella loro totalità, quanto piuttosto il modo in cui le due esistenze di Rocco Carbone e Pia Pera risiedono nella mente di Trevi, con tutto il carico di rimorsi, sensi di colpa, malinconia e memorie di tempi felici che si portano dietro.
Allora non può essere un caso la scelta di narrare le due vite del titolo con un metodo asistematico ed assolutamente poco rigoroso sul piano scientifico, che rende giustizia all’espressione usata da Mastrantonio, prosa d’anima. Queste biografie sbagliate, queste esistenze osservate da un punto di vista vicino ma non abbastanza da distorcerne i contorni e le specificità, hanno come comune denominatore la voce narrante, che trae dai meandri della sua memoria aneddoti, storie e descrizioni e li distribuisce sulla pagina seguendo un ordine non necessariamente vincolato al tempo lineare quanto piuttosto ad un tempo interiore, un tempo dell’anima, in un romanzo che conquista il Premio Strega e a giusto titolo si guadagna un posto d’eccezione nella letteratura italiana contemporanea.
