ESERCIZI VEGETALIInverno: l'abetaia

In questa stagione
non si vide nemmeno un cervo,
come silenzioso si spezza
un equilibrio.
— Francesca Calloni, La valle innevata, Versi Vegetali

Arturo il boscaiolo guardava la neve fioccare sull’Abetaia del Cervo dalla finestra della sua casetta di legno, l’abitazione semplice e spartana in cui aveva trascorso quasi tutta la sua esistenza: gli abeti innevati, avvolti nelle loro candide crisalidi invernali, somigliavano ad una fitta foresta di stalagmiti calcaree infisse nei monti rocciosi. L’umile baita, ad un tiro di sasso da quella sconfinata adunanza di aghifoglie, si smarriva nella vastità del paesaggio appenninico imbiancato dal gelo di febbraio.
Arturo doveva molto all’Abetaia del Cervo, a quell’immensa selva montana dall’appellativo così pittoresco ed evocativo: oltre a fornirgli il materiale di costruzione per la sua casa, gli aveva anche assicurato un lavoro a vita come tagliaboschi e commerciante di legname. La macchia silvestre doveva il suo nome spiccatamente faunistico all’abbondante popolazione autoctona di cervi che, libera e selvatica, proliferava indisturbata. Nella stagione degli amori di questi mammiferi,
coincidente con il primo autunno di ogni anno, un roboante susseguirsi di bramiti si levava dall’abetaia e riecheggiava tra i picchi e i burroni dell’Appennino. Arturo aveva sempre trovato sgradevole quel coro molesto di ruminanti lascivi, quel muggito monotono che, ciclicamente, si diffondeva tra i monti. Sua moglie Elena, per contro, non aveva mai condiviso questa visione: aveva sempre considerato quel richiamo selvaggio “romantico”, un’espressione viscerale del potere generativo della Natura. Ad ogni illazione bofonchiata dal marito taglialegna e diretta a “quelle stramaledette bestie cornute e chiassose”, la donna, per trentaquattro anni di matrimonio, aveva sempre opposto un sorriso indulgente, come quello di una madre al cospetto del piagnucolio di un figlioletto capriccioso.
Poi, come un fiore montano travolto dall’imprevedibile valanga del destino, Elena se ne era andata all’improvviso, in un dì di giugno dal cielo color nontiscordardimé: rottura di aneurisma cerebrale.
Arturo, in seguito a quella perdita, non era stato più lo stesso: la separazione dall’amata compagna aveva fatto breccia nella sua anima, lasciandogli dentro un buco nero divoratore di gioia.
Il bramito dei cervi in amore, come il ricordo dolceamaro della sua cara Elena, continuava a risuonare e ammutolirsi ad intermittenza nei giorni uggiosi d’autunno: bagliore bioluminescente di lucciola generato da un lutto insanabile come una cancrena. Improvvisamente e con regolarità, quel pandemonio animale poi scemava con l’avanzare del gelo, come se assiderato dal freddo tocco degli
anni che morivano.
In cuor suo, Arturo sapeva che la ferita d’amore inferta da quella mancanza non sarebbe mai guarita: il dolore non sarebbe cessato, se non con la fine di tutte le cose.
E ciò che il taglialegna respirava negli intervalli tra reminescenza e distrazione era un gelo di solitudine, ben più crudele di quello che imbiancava l’abetaia.

Pasquale Sbrizzi