H.P. Lovecraft: parola a Gianfranco de Turris

Gianfranco de Turris è una vera e propria autorità nel campo della letteratura fantastica in Italia: prolifico autore sin dagli anni Settanta di saggi e libri sul fantastico, ha offerto un contributo pionieristico e seminale agli studi nostrani su H.P. Lovecraft, autore di cui è uno dei massimi esperti e critici. Giornalista di ampia esperienza e rinomato scrittore di narrativa sci-fi, Gianfranco de Turris dirige inoltre le riviste “Antarès” (Bietti) e “Dimensione Cosmica” (Tabula Fati), ed è consulente editoriale per le Edizioni Mediterranee di Roma.
La Rivista Letteraria Mosse di Seppia, in relazione al recente anniversario della scomparsa di Lovecraft, ha voluto ascoltare la voce di de Turris, che ringraziamo per essersi dimostrato disponibile a rispondere alle nostre domande in merito al Solitario di Providence.

Lei è annoverato tra i maggiori esperti italiani di letteratura del fantastico, galassia artistica che comprende anche la letteratura dell’orrore, di cui H.P. Lovecraft è un esponente illustre.
Come definirebbe il “fantastico”? E in che modo quest’ultimo si rapporta con l’horror?

Come premessa si devono fare alcune precisazioni lessicali.
Da tempo ho indicato nella categoria generale dell’Immaginario quella che comprende science fiction, fantasy, horror e altri generi affini, quindi il rapporto fra essi è di far parte appunto di una categoria generale che, come tale – per rispondere alla domanda considerando i nuovi termini assunti – si può definire nel suo complesso una contrapposizione e spesso un’alternativa al Reale.
Insomma, fantasy ed horror sono due aspetti dell’Immaginario, due delle sue facce contrapposte declinate in maniera diversa.

Nel suo saggio “Danse Macabre”, Stephen King, pilastro della narrativa horror
contemporanea, esprime il suo apprezzamento per il Solitario di Providence e ne sottolinea l’importanza nella storia della letteratura dell’orrore. Quali sono, secondo lei, i romanzi dello scrittore del Maine in cui emerge di più l’influenza lovecraftiana?

King è uno scrittore fluviale e dal 1974, in quasi mezzo secolo, ha prodotto una marea di romanzi e racconti di diseguale valore, specie da quando sono diventati secondo me inutilmente prolissi e anche divaganti. L’influenza di HPL mi pare più evidente nei primi dieci anni e, credo, culmini con “It”. Ovviamente mi riferisco ai temi generali, e non a certe specifiche ispirazioni di King come, ad esempio, quei ragazzi e ragazzini spesso protagonisti delle sue narrazioni, dove è maestro nel
raccontarne il mondo, lo sviluppo, la mentalità in modo complice, del tutto assenti invece in Lovecraft.

La letteratura horror ha avuto da sempre un saldo sodalizio con la settima arte, legame a volte concretizzatosi con trasposizioni memorabili, indelebili nella storia del cinema: basti pensare all’impatto culturale di pellicole come “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York” (1968) di Polanski, “L’esorcista” (1973) di Friedkin e “The Shining” (1980) di Kubrick, tratte rispettivamente dai romanzi degli autori statunitensi Ira Levin, William Peter Blatty e Stephen King. Lo stesso, però, non si può dire delle versioni filmiche delle opere di Lovecraft: cosa ha reso e rende così difficile trasporre in modo efficace l’autore di Providence?

È vero, le storie di HPL portate sullo schermo non hanno dato buoni risultati perché i registi che le hanno trasposte – e che non erano del livello di quelli citati – si sono limitati agli aspetti esteriori più appariscenti e vistosi, peraltro spesso enfatizzati, senza preoccuparsi di quanto stava “dietro” mostri e mostriciattoli vari, senza considerare la “filosofia dell’orrore” di Lovecraft. Forse l’unico che abbia prodotto qualcosa di accettabile anche dal punto di vista simbolico è stato John Carpenter, regista visionario specializzato in horror e che ha preso soggetti anche dalle opere di King, soprattutto là dove è allusivo e non esplicito.

Lei ha introdotto il volume “Gli orrori di Yuggoth” (Barbera, 2007), silloge poetica di Lovecraft curata da Sebastiano Fusco. Il Solitario di Providence, infatti, oltre alla sua celebre dimensione di prosatore, è stato infatti anche un poeta, aspetto del padre di Cthulhu e Yog- Sothoth decisamente meno conosciuto ai più: come mai questa minore attenzione verso la sua poetica?

Ma perché da un lato è una produzione essenzialmente giovanile e ritenuta a torto minore, e dall’altro pare ovvio che al lettore comune, ancorché appassionato, interessi maggiormente una narrazione avvincente che non dei versi spesso intimistici e che non sempre aprono la mente a visioni che tutti possono capire e apprezzare. Inoltre, i versi di HPL sono ben particolari e bisogna saperli tradurre in un certo modo per poterli far ben intendere oggi, anche per il linguaggio e lo stile usati (si pensi ai sonetti e alle rime), cosa cui non sempre, anzi spesso, i traduttori non sono all’altezza.
Lovecraft ha un linguaggio poetico “classico”: se si traduce in modo letterale risulta all’orecchio e al gusto odierni ridicolo; se si traduce troppo liberamente si perde invece soprattutto il senso di quello che intendeva dire e come. Quindi occorre una via mediana, e la questione non è per nulla facile, altrimenti si fa fare una brutta figura allo stesso scrittore.

Secondo lei, cosa rende Lovecraft un autore così affascinante ancora oggi?

Come ho sempre scritto, i motivi sono due: da un lato una narrativa dell’orrore del tutto diversa dal solito e alla quale i lettori sono in genere abituati non conoscendolo, con l’invenzione di un pantheon alieno dell’orrore, una storia del mondo in cui irrompono i Grandi Antichi, il sapere che l’uomo non è in realtà il vero padrone del pianeta, i misteri che si celano dietro la realtà e le apparenze e così via, in un mondo sicuro di se stesso e che si affida totalmente alla scienza per spiegare ogni cosa. E dall’altro la consapevolezza che Howard Phillips Lovecraft resta un nostro contemporaneo anche se nato nell’Ottocento e morto oltre ottant’anni fa: perché aveva captato nella prima metà del Novecento la crisi del mondo moderno, della cultura occidentale, dell’individuo sperduto nella massa. Tutti temi attualissimi e in fondo ormai universali, endemici e irrisolti anche nel XXI secolo, anzi aggravati. Ecco perché i suoi racconti sono tradotti e apprezzati in tutto il mondo ed hanno appassionati in culture che non sono quelle occidentali.

Infine, azzardo una domanda un po’ meno seriosa: qual è il suo racconto di Lovecraft preferito?

Imbarazzante domanda! Potrei rispondere “tutti”, ma sarebbe troppo comodo, anche se in realtà tutte le storie di HPL sono in un modo o nell’altro collegate fra loro da una comune Weltanschauung… E allora diciamo “Nyarlathotep” che, pur nella sua brevità di frammento onirico incompleto, è suggestivo, sconcertante, inquietante e simbolicamente adatto non solo a rappresentare l’intera sua narrativa, ma anche il momento che stiamo vivendo.

 

                                                                                             PASQUALE SBRIZZI