“You stars that reign'd at my nativity, Whose influence hath allotted death and hell [...]”- Christopher Marlowe, The Tragical History of the Life and Death of Doctor Faustus,

Tutto è già prestabilito.
Gli dèi decretano il destino degli esseri umani sin da prima della loro nascita. Nessun uomo può opporsi all’incontrovertibile verdetto divino: sfidare il volere di Coloro-Che-Sono-In-Alto equivale ad una disfatta a priori. Al cospetto degli dèi, non siamo che i minuscoli abitanti di un inerme termitaio all’ombra di un titano.

Per gran parte della mia esistenza, anche io, Sharkallissharri, re della città di Qallasshu, non ho potuto fare altro che accettare queste verità, chinare il capo e sottomettermi al crudele fato riservatomi da Coloro-Che-Sono-In-Alto: la sterilità.
Sebbene abbia infatti tentato con ognuna delle sessantasei concubine del mio harem, in quasi venticinque anni di regno non sono stato in grado di garantire la sopravvivenza del nome dei miei venerabili predecessori generando figli maschi, mancando così dove sono riusciti mio padre, mio nonno e i miei avi prima di loro. Col passare degli anni, il rammarico per questa mia mancanza è divenuto un fardello sempre più insostenibile. Quello che in gioventù non era che un sussurro da parte dei miei antenati si è tramutato, nell’età adulta, in un tremendo, furioso coro di spettri che non ha mai, mai smesso di strillare nella mia testa profezie sulla rovina della mia patria, preda indifesa della cupidigia di cospiratori e sovrani stranieri per colpa mia: un re incapace di dare a Qallashu un principe ereditario. Crollato in un baratro senza fondo di acuta disperazione, ho quindi pregato, pregato e pregato affinché questa maledizione della sterilità cessasse, ma gli dèi non hanno voluto udire le mie suppliche.
Perciò ho deciso di rivolgere le mie preghiere ad altri poteri.
Amareggiato ma non sconfitto, negli ultimi mesi ho infatti consacrato le mie giornate allo studio delle scienze occulte nell’antica biblioteca del mio palazzo, scrigno di innumerevoli segreti arcani.
Ed è lì che, tre giorni fa, l’ho trovata.
Consultando dei testi di magia nera, mi sono infatti imbattuto in una blasfema tavoletta d’argilla, la Parola del Buio. Il manufatto secolare — opera del mio quintavolo, il celebre re-negromante Sharkallimūt delle Urne — tramanda le istruzioni per eseguire un rituale che, in cambio di carne umana, permette di evocare un antico essere e suggellare con Esso un baratto per vedere i propri desideri, anche quelli più sfrenati, realizzarsi.
L’essere è un nemico ancestrale, un qualcosa che gli uomini civilizzati temono con lo stesso fervore che manifestano nell’onorare gli dèi: uno spirito primordiale confinato, millenni fa, da Coloro-Che-Sono-In-Alto nelle tenebre dell’Ulkhaùnna, il nostro mondo, e che tormenta l’umanità con le piaghe della pazzia e dell’incubo.
Noi mortali ignoriamo quale sia il Vero Nome di quest’entitá, la cui conoscenza, secondo i grimori di magia nera, sarebbe appannaggio esclusivo di una congrega di suoi seguaci, una setta anonima di degenerati dediti al cannibalismo. La stessa Parola non rivela mai il Vero Nome: si riferisce a Lui solo con i titoli terrificanti che, per timore di attirare sventura, non proferiamo mai.
La Bocca senza Labbra.
Il Buio Che Ride.
Il Sonno Che Opprime.
Quello nell’Ombra.
Credo di non aver mai provato una tale paura in tutta la vita, ma le mie vicissitudini non mi hanno lasciato altra scelta: non posso più convivere con la prospettiva dell’estinzione del mio seme reale. Il sacrificio che la Bocca richiederà in cambio della possibilità di concepire sarà di sicuro gravoso, ma mai quanto il peso della colpa che, ahimè, porto sulle spalle ormai da troppo, troppo tempo.
Sono disposto a tutto, a pagare qualsiasi prezzo pur di non condurre la gloria dei miei padri allo sfacelo. In questa notte d’estate — giuro sui loro nomi benedetti — tutto cambierà.
È tutto pronto ormai. Ho seguito le istruzioni della Parola del Buio con minuzia e, finora, è andato tutto secondo i piani: ho preparato la Pece, il fiele rituale, e l’ho somministrata di persona ad uno sguattero delle mie cucine che, dal preciso momento in cui ha bevuto quell’intruglio nauseante, è divenuto, a sua insaputa, la mia vittima sacrificale. Lo straccione non si è opposto nemmeno per un istante alla mia richiesta di trangugiare quella brodaglia orrenda. D’altronde, chi oserebbe sfidare la volontà di un re? Io sono il signore di Qallasshu e lui, invece, non era che una nullità: un insignificante pezzente raccattato in chissà quale porcile delle periferie della città, un plebeo sacrificabile di cui nessuno noterà la scomparsa.
L’ho attirato qui lo straccione, in uno dei miei appartamenti privati nell’ala nord del palazzo reale e, senza alcuna esitazione, l’ho assalito alle spalle e sgozzato per offrire i suoi resti in pasto al Buio Che Ride e dare inizio così alla cerimonia nella stanza stessa.
La camera dell’omicidio è immersa in una penombra surreale: come prescritto dalla tavoletta, ho coperto con dei drappi neri ogni finestra, fessura e feritoia dei muri, e disposto lungo il perimetro tredici candele rituali fabbricate con grasso umano. Nell’oscurità, il baluginio delle piccole fiamme svela i contorni del
cadavere dello sguattero che, in una posa rigida ed innaturale, giace dinnanzi a me, al centro del cerchio d’evocazione che ho tracciato sul pavimento. Sul suo volto senza vita campeggia una smorfia terribile: lo sguardo sbarrato, la bocca spalancata, sdentata ed impiastricciata di sangue, come se, furioso, stesse tentando ancora di urlare invano con la gola recisa. Il puzzo di sangue e lerciume si è fuso con il tanfo dei lumi umani, diffondendo nell’aria un olezzo troppo sgradevole da descrivere.
Ora il rito d’evocazione è quasi completo: manca solo la formula finale, la cacofonica sequela di suoni gutturali e sibili serpentini che chiamerà Quello nell’Ombra in questo mondo. La frase, trascritta con i nostri caratteri dal venerabile Sharkallimūt sulla Parola del Buio, non somiglia a nessuna lingua parlata oggi nel Ulkhaùnna.
Mi avvicino ad una delle tredici candele per facilitare la lettura della tavoletta in quest’oscurità. Tiro un sospiro, mi schiarisco la voce: è il momento.
Ghalausshakkhu ru’shugghùl ib’blisshàq pah’ruddùz ghalassh-”
Toc-toc.
Qualcuno bussa alla porta.
Non adesso, maledizione. Non adesso!
“Altezza! Finalmente vi ho trovato!” mi chiama una voce effeminata: Uznu? L’eunuco? Che accidenti ci fa di fronte alla mia porta a quest’ora della notte? Come ha fatto a superare le guardie al piano di sotto?
Calma. Non c’è rischio che irrompa qui: non oserebbe mai entrare in una delle stanze reali senza il mio assenso e, inoltre, ho chiuso la porta a chiave per scongiurare ogni possibilità di essere colto in flagranza di rituale. Non posso correre il rischio di essere scoperto, che qualcuno possa riferire di magia nera ai
sacerdoti del Tempio di Qallasshu. Quei dannati chierici ipocriti — che siano maledetti — non hanno mai smesso di tramare alle mie spalle per strapparmi il potere: non attendono che un mio passo falso per accusarmi di sacrilegio e aizzare il popolo contro di me per detronizzarmi. So che anche la servitù sospetta di me, che sia colluso con le forze oscure: ogni giorno ed ogni ora, percepisco il turbamento nei loro sguardi, i mormorii fastidiosi dei loro pettegolezzi di vipere e, tra tutti loro, Uznu non fa di certo eccezione.
“Che cosa vuoi a quest’ora della notte, Uznu? Ho dato il preciso ordine di non essere disturbato!” tuono con un tono alterato per spaventarlo e spingerlo ad andare via.
“Sono costernato per avervi disturbato, ma è appena giunto un messo dal Nord, dai territori di Shimàlnar: porta con sé un messaggio urgente del generale Sarwatalli da sottoporre alla Vostra attenzione, Altezza!”
Ancora quel piantagrane ebete di Sarwatalli: dopo tutte le sue lagne su rinforzi e vettovaglie che ho dovuto sopportare, se il suo non è il messaggio che annuncia la resa incondizionata della città di Shimàlnar, giuro che vado a recuperarlo di persona solo per mozzargli la testa.
Adesso, comunque, la guerra con quei barbari shimalnariani non è la mia priorità: devo portare a termine il rituale.
“Lo leggerò dopo. Ora non posso! Va’ via e non disturbarmi più!”
Vattene via, dannazione.
“Ma Alt-”
“Vattene via, disgraziato d’un eunuco!”
“Come desiderate, Altezza. Perdonatemi… gli dèi vi preservino” mi augura sottomesso, rispondendo alla mia asprezza con insopportabile garbo.
Massima cautela, non posso rischiare: poggio l’orecchio sul legno della porta per accertarmi che Uznu stia andando via, per udire i suoi piedi grassocci condurlo lontano dall’ingresso della camera.
Passi umani, sempre più deboli, sfumano nel silenzio, poi… tacciono.
È andato via: posso riprendere da dove ho interrotto. Si compia la mia volontà per questa volta, e non quella degli dèi fasulli e tiranni!
Ghalausshakkhu ru’shugghùl ib’blisshàq pah’ruddùz ghalasshakkhu zal’amàsh zal’amàsh!” recito, questa volta fino all’ultima sillaba.
La Parola del Buio si disfa in polvere tra la mie mani.

Le candele si sono spente.
Sulla stanza è calata la tenebra più nera, su di me un’atavica sensazione di vulnerabilità: pare di galleggiare in un profondo abisso senza uscita, circondato da sguardi carnivori.
“Guardate un po’ chi abbiamo qui…”
Una voce dal buio: orrenda, cavernosa, demoniaca.
“…Sharkallissharri, discendente di Sharkallimūt delle Urne.”
La voce del Buio Che Ride sembra provenire da tutte le direzioni, da mille bocche contemporaneamente.
Mentre la mia vista tenta invano di abituarsi all’assenza totale di luce, mascella e mandibola scandiscono un ticchettio folle, più serrato del cuore impazzito nel petto.
“Allora? Il gatto ti ha mangiato la lingua? Perché mi hai chiamato?” mi chiede la Voce, con un risolino divertito.
Ogni quesito è inframezzato da un bestiale sgranocchiare ed inghiottire che risuona nell’oscurità, seguito in ogni pausa da un lugubre, viscido rovesciarsi. Non riesco a vedere ciò che sta succedendo a causa del buio fittissimo, ma posso immaginarlo: sono contento di non essere in grado di assistere all’efferata scena
del garzone smembrato e divorato.
Nel terrore, tento di mettere assieme i miei pensieri per costruire una frase.
“V-vorrei che c-curaste la mia s-sterilità, signore” balbetto, con voce tremante.
“Va bene, va bene… si può fare. E in cambio cosa mi daresti, piccolo re?” replica allegro Quello nell’Ombra, interrogandomi a bocca piena.
Cosa può interessare ad un tale creatura? Ciò che solleticherebbe l’avidità degli esseri umani? O degli dèi?
Beh, perché non entrambi?
Proviamo.
“C-costruirò una grande ziq-ziqqurat in vostro onore. T-talmente alta e maestosa da coprire la luce del sole e delle stelle, mio s-signore. Tutti tra le mura della mia città onoreranno i vostri N-nomi. Vi consacrerò, inoltre, metà del tesoro reale di Qallashu, di cui potrete disporre a vostro p-piacimento.”
La proposta susciterebbe l’interesse di qualsiasi essere, divino o terreno: i miei forzieri sono tra i più ricchi di tutto l’Ulkhaùnna, secondi solo all’immane opulenza della Cripta di Gemme del Patriziato di Shamashiyya. Ciononostante, l’unica reazione che ottengo dal Buio Che Ride è una raccapricciante, raggelante risata che rende onore al suo titolo.
“E cosa dovrei farmene io delle piramidi, dell’oro, dell’argento, dei gioielli e chincaglierie assortite?!
Queste cose hanno valore solo nel tuo misero mondo mortale, reuccio!”
Sono in difficoltà: sembra immune a qualsiasi richiamo materiale! Non posso finire gabbato così!
Mi prostro nell’oscurità di fronte ad un idolo che non riesco a vedere.
“C-chiedetemi qualsiasi cosa, qualsiasi. E io ve la darò” Lo imploro.
La Bocca Senza Labbra interrompe il suo ripugnante mastichio antropofago.
“Non saprei proprio cosa chiederti, Sharkallissharri”, esordisce l’essere con uno sbuffo, come se rassegnato ad una triste realtà, “sei più povero di quanto tu possa immaginare. Ami solo te stesso e le tue ambizioni: non hai amici, e sarebbe inutile reclamare la vita di una delle tue concubine o di un tuo ministro dal momento che per te sono pedine sostituibili, dico bene?”
Sta scrutando la mia mente: conosce i miei pensieri più nascosti.
“Inoltre, ripeto, i patetici metalli e pietruzze che tanto fanno tribolare voi scarafaggi bipedi non m’interessano. Quindi, piuttosto, voglio proporti di fare un bel gioco!” termina poi Quello nell’Ombra, in un crescendo di perverso e beffardo entusiasmo.
Gioco? Cosa ha intenzione di propormi mai?
“Sai tenere un segreto, reuccio?”
“C-credo… credo di sì, mio signore.”
“Bene, il gioco sarà proprio quello: non dovrai mai, e dico mai, rivelare ad anima viva il nostro patto. Se qualcuno eccetto noi due, anche per un malauguratissimo caso, dovesse venirne a conoscenza, avrai perso e ne subirai tutte le conseguenze!” illustra, coronando i due verbi finali con una nota spregevole.
Ebbene? Tutto qui? La regola impostami dal Buio nel suo gioco mi appare così generosa e semplice: dovrò solo tacere su quanto accaduto stanotte per ottenere ciò che desidero? Ho capito bene? Mi sta offrendo la possibilità di sancire il patto senza impiegare i miei averi?
Non posso crederci. Voglio chiarire questo dubbio.
“Non credo di aver compreso, signore. Mi darete la possibilità di concepire semplicemente mantenendo segreto il nostro accordo?”
“Esattamente, tesoro mio! Il tuo silenzio in cambio di tutti i marmocchi che vorrai! Semplice!” conferma soddisfatta la Voce.
Mi sarei aspettato un fio decisamente più esoso e, invece, sorpresa! Otterrò ciò che voglio nel più facile dei modi! Ma cosa rischio? La Bocca ha sorvolato sulle conseguenze di una mia — azzarderei dire a
questo punto impossibile — negligenza.
“E cosa accadrebbe se io dovessi rompere il silenzio sul nostro patto?” Gli domando.
Il Suo risolino maligno e invisibile mi serpeggia attorno come un boa: pare voglia stritolarmi in spire d’oscurità.
“Ah, questo lo scoprirai se fallirai, piccolo re! Allora, accetti?” conclude lezioso.
Beh, in fondo, nemmeno mi interesserebbe venirne a conoscenza perché, di sicuro, non perderò: solo uno stupido potrebbe fallire in una sfida a tali condizioni. Non posso continuare a vivere con la sola zavorra della colpa, figurarsi se a quest’ultima dovesse sommarsi quella del rimpianto di aver rifiutato una proposta così munifica: finirei schiacciato sotto il peso delle mie mancanze. Non ci rifletterò su
ulteriormente: porterò con me il segreto nella tomba, anche a costo di mozzarmi la lingua.
“Accetto!” urlo, pervaso dalla gioia, nelle tenebre.
Il mio grido che sancisce il patto echeggia nella camera del rituale, attenuandosi, progressivamente, in un
riverbero appena percettibile.
Poi, silenzio.
Le tredici candele si riaccendono da sole, per magia.
All’interno del cerchio d’evocazione, nulla: il cadavere dello sguattero non c’è più, nemmeno un brandello di carne, nemmeno una macchia di sangue.
Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Finalmente il mio tormento è finito! Ora potrò essere libero da quest-cos’è questo brivido freddo che percorre la mia schiena?
Un pungente e repentino formicolio si irradia in tutto il torace.
Una stretta al petto, come un attacco di cuore.
Terrore: il mio breve urlo strozzato risuona nella stanza.
Tramestio frettoloso di passi che fuggono dall’ingresso della camera.
Qualcuno.
Mi avvento sulla porta e la spalanco con tutta la forza. Il frastuono del legno contro il muro mi assorda: un fischio stride feroce nella testa.
Uznu.
Il goffo eunuco, sollevandosi la veste, scappa nel corridoio illuminato dalle torce verso la scalinata che conduce al cortile del palazzo. All’apertura della porta, interrompe la sua fuga per un istante e si volta verso me: le ombre create delle fiamme sul viso atterrito gli conferiscono un aspetto sinistro, inquietante.
Lo sguardo di terrore mentre, tremante, mi punta contro il dito indice.
“Siete un servo del Male! Mostro! Siete un mostro!” strilla Uznu, stizzoso.
Qualcosa mi afferra il cranio.
Urla.
Tenebre.

Pasquale Sbrizzi