Il giornale di oggi.

“«La valigia è pronta. Vado ad accendere un altro riflettore sulle miserie che nessuno vuole guardare» Intervista con il fotografo di guerra Fabio Brisci”.
Il pollice mi si ingrigisce mentre accarezzo la pagina del giornale. Ti immagino in mezzo agli scatoloni, a studiare ogni oggetto chiedendoti se sia poi così importante.
“Non riesco a fermarmi, ho bisogno di correre sempre dietro alla verità.” Tu e la tua macchina fotografica.
Tu, la tua macchina fotografica e l’ennesimo viaggio verso una vita che non è la tua, ma quanto la amerai nei mesi in cui la attraverserai.
E io la amerò attraverso i tuoi occhi.
Io e il computer con cui guardo il tuo lato di mondo. Io e la stampante con cui ne faccio infinite copie per portarlo in ogni stanza. Io e i pennelli con cui lo ripercorro.
Io e le tue guerre che sono le mie.
Non ameresti nulla di me, se mi conoscessi. Sono solo una che ha avuto sogni molto grandi e troppo poco talento per realizzarli. Volevo dipingere. Credevo che bastassero sensibilità, mano ferma e buon gusto. Mi dicevano sempre tutti che ero brava a disegnare e io gli ho creduto. Ci ho messo tantissimi anni a capire che se la sensibilità è un faro puntato sempre e solo dentro se stessi, con quella roba non si fa arte, non interessano a nessuno le lagne infiocchettate di qualcuno che non
vede il mondo intorno.
Ricordo una mostra, quando ancora non eri famoso. C’è questo stanzino, nel museo d’artecontemporanea della mia città, dove viene lasciato spazio ai signori nessuno che chiedono di poter dimostrare che hanno qualcosa da dire. Io questo stanzino non lo guardavo mai. Andavo tutte le settimane al museo, ma andavo a vedere i grandi; mi portavo il blocco da disegno e passavo le ore con la matita in aria, aspettando di catturare il momento perfetto, una suggestione che mi avrebbe fatto entrare nei libri di Storia dell’Arte. Rimanevo in contemplazione mentre intorno a me succedevano cose di cui ero appena consapevole. C’eravamo solo io e i dipinti. Non mi interessava nient’altro, e così ho perso i mille cellulari alzati verso le tele, le persone che guardavano le didascalie prima delle opere, i bambini incantati e quelli annoiati, le scolaresche e le coppie, gli sguardi eternamente adolescenti che si sfuggivano e si rincorrevano per rifugiarsi fra le pieghe delle tele.
Il mio incontro con te è stato dei più banali. Hai presente le giornate di pioggia che cambiano la vita dei protagonisti nei film con poca fantasia? Ecco. Avevo rimesso i fogli bianchi nella mia borsa- dell’-artista, la tracolla di pelle con le cinghie. Mi ero strofinata il pollice sulla mina della matita, che non ho mai capito perché lo faccio, ma mi viene automatico quando non sono tranquilla, e poi l’avevo buttata nella tasca interna. Ero tanto persa nei miei malumori da non sentire nemmeno il vento, una cosa che pareva volesse tagliare a metà il museo per portarsi via gli ultimi due piani. Ero tanto stordita che, davanti alle porte di vetro dell’androne, prima di vedere il muro d’acqua ho sentito l’odore di fango misto a pipì e smog delle pozzanghere. Solo dopo ho visto. E ho sentito il vento. E ho pensato, Ma io dove mi avvio. E mi sono avviata nello stanzino degli sfigati.
Hai presente come si sta in un campo magnetico? Io no, ma deve essere qualcosa di molto simile a quello che ho sentito quel pomeriggio. Con il vento che cercava di infilarsi anche sotto il pavimento e portarci via tutti. Con la pioggia che schiaffeggiava l’edificio con la violenza di una cascata. Con la luce al neon che faceva riflesso sui vetri. Con i vetri che mi inchiodavano alle vite che custodivano. È stato davanti a una foto in particolare, che ho capito che avrei avuto bisogno di
vedere con i tuoi occhi. Dalle figure sfocate in primissimo piano si intuiva che eravate immersi nel caos e nella paura. Ma tu non hai immortalato il fuggi-fuggi, né i volti con gli occhi di fuori che immaginavo per quei corpi aggrovigliati nella corsa. Nello spazio fra due busti con le braccia impazzite, quello che volevi raccontare era un ragazzino accovacciato in un angolo, con la testa fra le mani e una gamba ricoperta di sangue. Ho preso il blocco da disegno e l’ho ricopiato, cercando di farlo uguale. Avevo bisogno di vederne tutti i dettagli, di soffermarmi su tutto quello che dalla foto mi parlava di orrore, ma senza urlarmelo in faccia: era la crosta di terra sotto un piede nudo ad avvolgermi in una spirale di dolore, e l’uomo con la mano fasciata tenuto da sotto le ascelle, il muro scrostato, un’asse di legno scheggiata. Non sapevo tu che faccia avessi, non conoscevo la tua voce, ma potevo sentirti accanto a me, a sussurrarmi Guarda, guarda. Non smettere. Guarda meglio. E più guardavo, più mi rendevo conto di non esserne in grado. Più segni facevo sul foglio, più mi sentivo cieca e disarmata. Guarda. Guarda meglio. E non era mai abbastanza. Guarda. E mi perdevo qualcosa. Guarda meglio.
C’era una ragazza, davanti a un’altra foto che ritraeva una bambina con lo sguardo lontano, oltre il mare, mentre un uomo le dava un bacio su una tempia. La ragazza aveva gli occhi lucidi. Il petto le si muoveva lento su e giù, con movimenti profondi. E io la vedevo. La sentivo.
Il mio disegno faceva schifo, ma sai cosa? Non avrei voluto fare nient’altro per tutta la vita. Ed è quello che ho fatto.
Non saresti molto fiero di me. Ora che sei famoso, ora che tutti vorrebbero avere tue immagini nei giornali, sulle copertine dei libri, nelle cornici che si regalano alle persone speciali, io sono quella che ti toglie i diritti. Faccio disegni originali riproducendo fedelmente le tue fotografie. Ma essendo un mio prodotto, essendo diversi i mezzi, nessuno può contestare se sono io a essere pagata per una locandina, anche se le manifestanti cilene con la benda nera agli occhi e il pugno alzato le hai viste tu. Ti rubo lo sguardo e i soldi, e in cambio cosa ti do?
Non li so neanche fare i regali, ma
È che quando copio le tue foto con i miei pennelli, le mani mi tremano.
Sento un dolore che mi sembra sempre di non reggere, non mi sento mai brava abbastanza, ma
Ma ho bisogno di fare tana nel tuo sguardo per imparare a guardare.
È che adesso che hai annunciato un nuovo trasloco, e che per la prima volta l’hai ammesso, hai detto Ho paura, e che fatica questi addii e questo millesimo ricominciare, e forse ne hai viste troppe per lasciarti ancora guidare e sorprendere, e
È che avrei voglia di regalarti un fiore.
Fra le tue storie, l’hai mai sentita quella della fioraia di Sarajevo?
C’era questa signora anziana col suo chioschetto. Poi ci fu la guerra e di fiori non ne crescevano più. E la donna iniziò a vendere mazzetti di fiori che faceva con i fogli di giornale. Rimaneva con tenacia a vendere qualcosa di così bello, così inutile, così stonato fra i proiettili e le bombe.
Sai cosa? Oggi non voglio copiare nulla. Faccio una cosa bella e inutile, per te che non lo saprai.
Voglio tagliuzzare tutte le tue paure, tutta la fatica, e farne petali. Oggi con la tua intervista ci faccio un fiore.

Sabrina Silvestri