Il peso dell'asteroide
Che palle dover scegliere i calzini da abbinare alle scarpe, mettere la camicia giusta, sistemare i capelli, ma non posso cambiare modo di fare proprio ora che devo vedere i ragazzi, anche se in realtà è solo un pretesto per verificare i miei sospetti.
Sento di camminare su un fottuto campo minato. L’ultima cosa che ho voglia di fare è di rispondere a delle stupide domande del tipo “sembri strano, che hai stasera?” potrei arrivare alle mani anche per molto meno, ora che ci penso. In questo preciso istante desidero solo mantenere un briciolo di comando sulla mia vita. Come quando da piccolo, durante i mesi più duri dell’inverno, seguivo con il dito la traiettoria delle gocce di condensa che scendevano dalle finestre chiuse, nella tenera illusione di poterne controllare il percorso in qualche modo.
Arrivo fuori al viale, in alto, un nugolo di zanzare attraversa un tetto invisibile, rotea con fare nevrotico e pare si voglia fermare sulla panchina accanto alla mia auto parcheggiata.
Con una manata faccio un gesto per scacciarle, più un atteggiamento difensivo che altro, poi apro di corsa lo sportello e mi siedo al lato guida.
Grazie a una serie di semafori verdi e alla città semi deserta arrivo molto in anticipo rispetto all’appuntamento. Parcheggio dopo un percorso alberato e svolto per delle scale poco illuminate. Faccio quella stessa strada che ho percorso diverse volte nell’ultimo paio di giorni, negli anfratti più reconditi del mio cervello, alla ricerca di una risposta soddisfacente.
La distanza che mi separa dalla verità è dietro una piccola abitazione alta poco più di tre metri. Alla base delle mie ginocchia scorgo una parete bianca con una piccola scritta dorata “no cani blu!”, chissà se è nuova o è sempre stata lì e non ci ho mai fatto caso.
Con fare lento cammino con la mano poggiata lungo il muro fino alla ringhiera verde
bottiglia che termina in un garage all’aperto. Esito, non ho la forza di andare avanti. Se faccio anche un solo passo non potrò tornare più indietro e questo mi sta facendo cacare sotto. Ho la percezione che tra poco la mia vita non sarà più la stessa, mi sento un cane che inizia a tremare appena avverte i fuochi d’artificio sparati a chilometri di distanza.
Un vecchio sul balcone mi guarda con aria sospetta, come se avessi delle strane intenzioni, e sono costretto a fare quel passo.
E come sospettavo eccola lì, la vecchia Micra lilla con il faro destro spaccato e la riga sul cofano, dove è stata per tutto il tempo della sua “vacanza on the road”. Un fremito mi scuote, le gambe iniziano a dondolare tipo quella volta che ad Amsterdam mangiai un funghetto. Cerco di inspirare più area possibile, ricordando gli insegnamenti della mia terapeuta in merito agli attacchi di panico, ma la sensazione di smarrimento che mi pervade non fa che peggiorare.
Con un movimento nervoso estraggo lo smartphone, su WhatsApp leggo il messaggio di Filippo: “stiamo parcheggiando, due minuti e ci siamo”. Faccio una serie di scatti per poterle sbattere in faccia la prova inconfutabile di quello che ho appena visto e vado via.
Blocco sul nascere l’istinto di inviarle una delle foto, non posso farlo ora, inizieremmo a discutere al telefono e non posso intossicare tutti, dannati riti sociali. Accenno un saluto a quello con il beagle che abita nel suo palazzo e continuo irrigidito verso il luogo dell’appuntamento, guardando di tanto in tanto indietro come se qualche ombra sinistra mi stesse seguendo.
Arrivo alla birreria, saluto Marco, Filippo e un suo amico di cui non ricordo il nome. Ci sediamo e ordino una rossa doppio malto, gli argomenti sono leggeri e sempre gli stessi, ma avremmo potuto discutere di qualsiasi altra cosa tanto non avrei prestato molta attenzione.
Peccato perché è una bella serata, se non altro dal punto di vista atmosferico, si respira quell’aria febbrile delle vacanze estive, d’altronde sono quasi tutti in ferie e stiamo in un posto di mare.
Marco cala il piccolo pugno sul tavolo di legno, fa volare via una bustina di ketchup, “ragazzi dobbiamo organizzare un viaggio solo noi, senza le nostre ragazze”. In quel momento parte la suoneria del mio cellulare, è lei. Marco sorride infastidito, come per dire “ecco il primo che non verrà mai”, faccio il cenno a Filippo di farmi passare e vado a parlare una ventina di metri più in là, in uno spazio appartato. La telefonata dura giusto una manciata di minuti, mi racconta dei chilometri percorsi alla guida, rispondo senza enfasi, in realtà avrei voluto soltanto urlarle TROIA con tutto il fiato in corpo. Con la scusa che sono arrivate le birre la saluto, anche perché avverto nella sua voce, per la prima volta, delle vibrazioni fastidiose.
Mi siedo di nuovo al mio posto facendo una battuta sul nuovo taglio di capelli di Marco che fa ridere i presenti, neanche quando vorrei praticare autolesionismo a livelli cosmici perdo il senso dell’umorismo. È stata sempre la mia condanna la sindrome di “Chandler Bing”, come la chiamava Mario durante gli esami all’università. In uno slancio di finto entusiasmo alzo la bottiglia di birra all’altezza degli occhi e propongo un brindisi alla “scuzzetta” di Marco. Poi il ragazzo senza nome risponde a una domanda sul suo nuovo lavoro e ne approfitto per scrollare compulsivamente la home di Instagram, sperando di trovare qualche sua foto nel feed.
Finiamo di bere, smezziamo il conto e camminiamo un po’ per smaltire le birre. Noto, con una consapevolezza che quasi non mi appartiene, che quella sarà l’ultima volta che cammino per quelle stradine, che osservo quegli alberi, che respiro l’odore dell’erba appena tagliata.
Fino a qualche giorno fa mi trovavo a percorrere quegli stessi viali del lungomare con lei per portare a spasso Iago. Quelle serate intrise di semplicità diventavano uno dei momenti più belli dell’intera giornata perché ne approfittavamo per aggiornarci sui nostri sogni, sui problemi da risolvere e sulla vita che progettavamo di vivere insieme. Ora sembra un paesaggio distante, una distorta rappresentazione del mio passato. È tutto diverso, asettico, quasi impalpabile, perché il mio quotidiano sta per essere stravolto irrimediabilmente, anche se lei non sospetta ancora nulla.
Per tornare alle auto passiamo davanti al suo garage, riguardo la Micra con la coda dell’occhio senza fermarmi. Per fortuna i miei amici non sanno che questa sera dietro i miei sorrisi, il mio solito fare cordiale, si cela un mix di sentimenti altalenanti. Ma ho solo dilatato una condizione futura, quando, tra qualche giorno per metabolizzare l’accaduto, mi aggrapperò con tutte le forze al loro sostegno pur di stare il meno possibile da solo con me stesso.
Il pomeriggio successivo, entro nel parco dove ci siamo baciati per la prima volta, mi sento il protagonista di un brutto Mumblecore dei fratelli Duplass. Trovo una panchina libera sotto a un albero di limoni, di fronte, anche se abbastanza lontani, ci sono due ragazzini che si baciano e si accarezzano con fare disinvolto. Inizio a leggere in maniera distratta l’ultimo saggio di Zadie Smith, ma i miei occhi cadono spesso sul cellulare alla ricerca del suo messaggio per avvertirmi del rientro dalla vacanza. Che non arriva. Mai.
Provo a chiamarla, non risponde. Per fortuna finisco il libro poco prima che inizi a calare la luce. Esco dal parco e incomincio a camminare percorrendo lo stesso tragitto più volte, cerco di ingannare l’attesa ascoltando Outside di David Bowie, giusto per restare in tema. Do una manata con tale forza a una ringhiera che il dolore schizza su fino al gomito e sono costretto a serrare le labbra per non urlare. Quando alzo la mano sento le dita pulsare. Sulle ultime note di Wishful Beginnings la richiamo, è spento.
Tolgo le cuffie e mi siedo a osservare le persone che passeggiano su una pensilina della metropolitana, da quella prospettiva, anche se in lontananza, riesco a scorgere il suo viale. Il vento, che sorvola il marciapiede in tutta la sua lunghezza, è tinto di un caldo afoso. Le ombre scure dei palazzi si allungano sulle auto che scorrono veloci, macchie incostanti e, sul ponte della metropolitana dietro la mia testa, i treni fanno vibrare l’asfalto al loro passaggio.
Dopo un’altra ora riconosco la sua camminata provenire dalla strada principale seguita a poca distanza da una figura ritta e baldanzosa che trascina la sua valigia sui sanpietrini.
Proverei decisamente più sollievo se un asteroide mi colpisse in pieno cancellandomi in un solo colpo dalla faccia della terra, piuttosto che assistere a questa scena patetica.
Mi faccio forza e scendo di nuovo le stesse scale di ieri, d’altronde sono qui perché voglio incontrarla. Non ha senso fare una scenata, mi basterebbe solo capire il perché di tutte queste menzogne, il problema non è certo lui che se la scopa, chi può biasimarlo, sarei un ipocrita se non dicessi che lei è bella e sa come ammaliare un uomo, con me le è bastato il tempo di un sorriso.
Squilla il mio cellulare, un suo messaggio mi avvisa che sta a casa. Aspetto che passi il treno delle 20 e la richiamo. Le dico che sto giù e che non ho voglia di salire a casa sua. Lei non ne resta sorpresa, si limita a dire “va bene” e attacca la telefonata.
Mi viene incontro con un vestitino blu cobalto che mette in risalto le tette e la schiena abbronzata, lo stesso che nei momenti concitati prima di fare l’amore amavo sfilarle da sotto. Chissà se anche lui glielo strappa con foga per scoparsela o se lo toglie lei.
Resto immobile nel guardarla, mi sorprendo ogni volta davanti a tanta bellezza, l’incertezza dei suoi passi, l’aria smarrita e ciondolante. Mi saluta con un semplice “ciao” sottovoce senza neanche avvicinarsi, con calcolata freddezza e senza tenere il minimo contatto visivo.
Percorriamo un tratto di strada stando attenti a mantenere qualche metro distanza l’uno dall’altra verso un posto più appartato, designato per la fine della nostra relazione.
La osservo dalla testa ai piedi come non avevo mai fatto in quasi otto anni di relazione, e per la prima volta mi sembra un’estranea. Abbasso lo sguardo all’altezza delle sue mani, scorgo uno strano tic, un tremolio lieve ma costante. Sembra a suo modo fragile, quasi indifesa, come quei pugili che sono sicuri di non rientrare nella loro categoria di appartenenza prima di salire sulla bilancia.
«Te lo sei scelto pelato, non credevo ti piacessero», un tentativo di spezzare il silenzio con un insulto banale, una cattiveria detta di pancia che non mi appartiene affatto.
Lei fissa per un istante il vuoto, pensa a una risposta, poi si gira dalla mia parte senza guardarmi in faccia, «non vedo il problema», e riprende a camminare con la sguardo dritto.
Rimaniamo in silenzio per altri venti secondi, che per me sembrano un’eternità. Un faro di un’auto quasi mi acceca e ripenso all’asteroide e a quanto potrebbe pesare, ma data la vicinanza fisica, ci avrebbe in ogni caso disintegrati entrambi, dandoci quantomeno un’uscita di scena più degna di questo finale da quattro soldi.
Ci sediamo su delle panche di legno libere, di fronte agli scogli. La serata è appena agli inizi e si sente ancora forte l’odore di salsedine.
«Come l’hai scoperto, questa volta?»
«È la prima cosa che ti viene in mente di dirmi in una situazione del genere? Aspetta… ci sono state anche altre volte?»
«Non sono monogama, tu sì, è questo il problema tra di noi.»
Il problema tra di noi è che sei una zoccola.
«Fammi capire, stai dicendo che è colpa mia?»
«Non ho detto questo. Non mi pento di quello che ho fatto in questi anni e non ti chiedo scusa perché è nella mia natura e non posso far niente per cambiare.»
Quel tono di voce monocromatico, la scelta ponderata delle parole, mi fa perdere ogni tipo di contatto con il mio corpo, come se ad un tratto non riuscissi più a controllare i miei arti.
Faccio un grosso respiro, riacquisto una porzione di lucidità e, per non scaricarle addosso quel poco che ho imparato nei sei mesi di Kickboxing, mi alzo e inizio a camminare.
«Andiamo da un’altra parte, c’è troppa gente.»
Rimane ferma per qualche secondo poi mi segue senza fretta, in quanto predatrice esperta sa che è solo una questione di tempo visto che la sua vittima puzza già di morte.
Mi appoggio a un muretto in una piccola secca dietro alla scogliera, le barche ondeggiano e si urtano creando una curiosa colonna sonora sperimentale. La mia mente è offuscata da una sequela di immagini che si ripetono casualmente in successione, l’unica sequenza nitida è quella di un altro che se la sbatte con prepotenza, come in una versione hard-core di Fight Club.
Marla, Tyler, e il narratore cornuto.
«Lo sai che sei una troia egoista?»
Non risponde, e questo mi sorprende, si limita soltanto a biascicare un semplice e falso “me lo merito”. La guardo negli occhi, cerco un’emozione che non trovo.
Troia e anche anaffettiva.
«Sai che ho perso solo tempo con te? Tempo che non mi verrà restituito.»
TROIA.
«Perché mi hai fatto questo, ho sbagliato in qualcosa?»
«No, tutt’altro, sei stato perfetto in questi anni. La colpa è mia perché ho iniziato a tradirti già dopo un paio d’anni, e non solo nell’ultimo periodo.»
Credevo fosse diversa dal resto della sua famiglia disfunzionale. Ma ora sto commettendo un altro errore madornale giustificandola, è solo una TROIA!
«Continuo a non capire.»
«Stare con gli altri alimenta l’amore per te, infatti io ti amo.»
Con un calcio alzo della sabbia bagnata, dei granelli entrano all’interno delle calze.
«È un amore tossico ed egoista, perché avevo il diritto di sapere.»
Sento l’istinto di togliermi una scarpa, mi limito a scuotere il piede inutilmente.
«Perché tu saresti stato con me a queste condizioni? L’ho fatto per noi.»
«Ma ti senti quando parli? Sei malata!»
Sento un sapore amaro sulle labbra, l’assaggio e capisco che è una mia lacrima. Di riflesso o per continuare a manipolarmi o per sembrare un essere umano e non una serial killer del cazzo, inizia a piangere anche lei.
«Scusa, scusa, scusa. Lo so che è finita tra noi, tu non concepisci l’amore in questo
modo.» Ovviamente doveva scrivere lei il finale, non era abbastanza umiliante l’avermi tradito e mentito per tutti questi anni.
«Ora mi farebbe schifo anche sfiorarti per sbaglio e se tu non te ne penti non ci sono neanche i presupposti per continuare una conversazione civile.»
A questo punto sento che la crisi di pianto è superata. Cerco di trovare un minimo di distacco, anche se vorrei soltanto tuffarmi in acqua e nuotare fino a perdere i sensi per la stanchezza.
«Dovevo capirlo tempo fa, non hai mai centrato il regalo giusto al nostro anniversario.»
«E questo cosa c’entra, ora?»
«Sto iniziando a capire.»
«Non ti ho mai fatto mancare nulla.»
«Mi hai solo privato del principio fondante di una relazione, il rispetto.»
Lancia uno sguardo al cielo con un’espressione contrariata.
Non posso credere a tutto questo.
«Anche se ricevessi le risposte a tutte le domande che ho in testa non sposterebbero di una virgola quello che ho provato per te, questo è innegabile. Alla fine cosa conta in un rapporto, i fatti, forse, ma spesso anche quelli sono equivoci, come te del resto. Le azioni possono essere giustificabili, tollerate e probabilmente anche capite, ma così facendo non faccio altro che dare fuoco ancora di più alla picca che alimenta il tuo egoismo.»
Sono sorpreso da tanta lucidità nelle mie parole, scorgo un senso di fastidio nei suoi gesti, come se non vedesse l’ora di andare via. Da quel pezzo di merda che si scopa ora.
«Forse è come dicesti tu, vorrei sempre vivere i primi momenti di una relazione.»
«Non mi sembra il caso di usare le mie parole a tuo favore, storpiandole tra l’altro.»
Mi rivolge uno sguardo incerto e per un attimo rivedo la donna della quale mi sono innamorato. So perfettamente che può produrlo a piacimento per chiunque voglia, ottenendo sempre lo stesso risultato. Stronza.
«Hai mai detto una sola cosa sincera in vita tua?»
«Ti sto dicendo totalmente la verità in questo momento.»
«Con chi sei stata oltre a quest’ultimo coglione?»
Inarca le labbra e respira dal naso. «Penso altri tre, non ricordo, ma non ho scopato con tutti se te lo stai chiedendo.»
«Grazie per avermelo detto, anche se fuori tempo massimo.»
Sento un miagolio provenire da lontano. Da dietro un remo spunta un gatto, si stiracchia, comincia a leccarsi, poi salta su uno scalino e se ne va lontano annoiato.
«Non ha più senso continuare a parlare, è solo altro tempo sprecato.»
Abbasso lo sguardo sulle mani, le porto attorno agli avanbracci e inizio a ad accarezzarmi con dei gesti veloci.
«Hai freddo?»
«No.»
Mi esce una voce bassa e incerta. Sto trattenendo l’impulso di ucciderla, sono sicuro di potercela fare. Frugo in tasca ed estraggo le chiavi dell’auto.
«Mi hai rotto il cazzo, me ne vado.»
Sfilo dal polso il bracciale di metallo che mi ha regalato dopo il primo mese insieme, glielo porgo guardandola negli occhi.
«A questo punto non mi serve più.»
Non dico altro. Non saprei nemmeno cosa aggiungere, comunque sembra chiaro che per quanto cerci una mediazione, una spiegazione reale non posso ottenerla. Mi fissa senza capire poi inizia a piangere, questa volta sembra sincera. Glielo richiudo nel palmo e la stringo in un abbraccio. Tra le lacrime ripete continuamente “no”, una negazione che mi sfonda il petto peggio di una lama. Il contatto con il suo corpo sprigiona sensazioni che sembrano distanti, come qualcosa che in realtà non mi è mai appartenuto.
Mi allontano senza girarmi indietro, non ne ho bisogno.
Entro in auto, affondo la faccia nel sedile accanto per soffocare l’istinto di piangere nuovamente. Le sue parole sono sembrate andare oltre la mia mente, come se mi fossero entrate dritte in corpo e fossero rimaste lì. Il calore del sediolino mi procura una sensazione piacevole anche se effimera, come se momentaneamente potesse lenire questo immenso dolore.
Lancio un’occhiata allo specchietto retrovisore, ho una faccia orribile, non sono sorpreso.
Ho le guance chiazzate, gli occhi rossi e le labbra increspate.
Accendo la radio, metto su radio Capital e intercetto Luca De Gennaro che celebra, con la sua voce calda e accogliente, come se fosse uno di famiglia, i quarant’anni dell’iconico album La Voce del Padrone di Franco Battiato. Dopo una breve introduzione parte Sentimento nuevo.
Alzo il volume quel tanto che basta per coprire i pensieri e metto in moto.
Sotto a una galleria perdo il segnale e riempio i vuoti cercando di ricordare il testo.
I desideri mitici di prostitute libiche
Il senso del possesso che fu pre-alessandrino
La tua voce come il coro delle sirene di Ulisse m’incatena
Ed è bellissimo perdersi in quest’incantesimo.
Racconto di Gennaro Guariniello - Illustrazione di Luca Albanese

Luca Albanese
Fumettista in attivo dal 2019, ha pubblicato con Beccogiallo, Sky arte, Giunti e Poliniani.
Gennaro Guariniello
Sceneggiatore, autore, regista e bookseller. Dopo diversi anni passati a lavorare nel settore discografico inizia a scrivere e a girare i primi cortometraggi. Dal 2020 è cofondatore del collettivo di fumettisti chiamato “Gloom Comics”. Nel 2022 debutta, come autore, con il graphic novel “Pet Sounds” edito da Poliniani.