‘L’ho lasciata andare, ieri notte.
Siamo arrivati in fondo alla strada, in quel vicolo stretto e umido, pregno dell’ acre effluvio di una spezia di cui non ricordo neppure il nome, e come al solito gli abiti bagnati che ballavano al vento sono stati il mio cielo.
Lei, invece, guardava me e taceva.
Aveva indosso quel suo bel vestito candido, che indossava sempre quando voleva apparire più bella, e se lo metteva su con una sfrontatezza raffinata, e con la sua solita, dolce presunzione
che le impediva di vedere quanto l’orlo fosse consumato, quanto fosse vecchio e ingiallito il colletto.
Ho guardato a lungo quel vestito, ieri notte.
Mi era sempre sembrato splendido, come i suoi occhi da Venere che il candore del tessuto faceva splendere, e la sua pelle profumata, che tutti potevano sentire, mentre leggiadra passava per strada, facendosi ammirare.
Ieri invece no. Sulla curva del collo aveva un lungo livido scuro,
coperto da una montagna di cipria…pensava che non lo avrei visto?
E le braccia, conserte, erano piene di graffi.
E le sue gambe – ho guardato a lungo le sue gambe, quelle
meravigliose colonne pallide, lisce, quelle sue magnifiche gambe – indossavano delle calze rotte, sfilacciate, come se
sulle ginocchia avesse fili di ferro, strappi di pelle nera.
Poi ho guardato il suo viso, e non c’è stato bisogno di sapere altro.
Quante volte le ho detto di amarla? Dalla sua bocca, che ha baciato generazioni millenarie di uomini di tutte le razze, e io li vedo tutti sul suo sorriso storto, i millenni – dalla sua bocca non è mai uscita alcuna risposta.
Ogni volta che andavo a trovarla, e sbigottito aprivo la porta
e la guardavo distesa su un cimitero di cicche spente, il volto nobile e indifferente che mi fissava interrogativo, le chiedevo disperatamente perchè non mi amasse. E ogni volta taceva.
Ieri notte non ce l’ho più fatta, tu devi capirmi.
Abbiamo camminato per ore, e ho tenuto per ore
un dolore, alla base del collo, un dolore dentro, e ho cercato di inghiottirlo, di mandarlo giù come uno sciroppo amaro, ma quando lei mi guardava in silenzio, sottecchi, e non diceva nulla, mi faceva soffocare.
Sono stato violento, e l’ho insultata.
Le ho chiesto perché avesse quel maledetto livido
sul collo, chi le avesse strappato le calze, dove fosse caduta, dove, per procurarsi quegli orribili graffi.
”Ce li ho da sempre”  – questo mi ha detto.
Allora l’ho presa per un braccio, ed ero disperato – immaginami
non sono riuscito a contenermi, l’ho fissata sconvolto,
da sempre quando? Da sempre quanto?
Cosa significava ‘da sempre’?
Le ho urlato che li avrei ammazzati, che avrei
distrutto la vita a chi l’aveva offesa, ma quella puttana mi ha sorriso beffarda
e per la prima volta ho sentito scendere sulla testa, come una ghigliottina sul capo dell’Infante innocente, tutto il peso
del tempo passato a guarirla.
A cercare di guarirla.
Ho fissato sconvolto il suo volto, e non ho avuto bisogno di sapere altro. Questa sarebbe stata l’ultima volta.
Ho lasciato andare il suo braccio, se l’è toccato, era indolenzito
ma non sembrava soffrire per quello.
Domani me ne vado, le ho detto. Domani me ne vado lontano, e non tornerò mai più.
Eravamo alla fine di quel vicolo, che sembrava far colare i graffiti dalle case come il sangue che colava sui suoi piedi.
Non sarei mai riuscito a guarirla.
Allora me ne sono andato, l’ho lasciata andare – non giudicarmi.
Mi sono voltato, e con una morsa al petto ho costretto i miei occhi a distogliere lo sguardo dalle sue labbra da Venere, a non versare lacrime.
Un passo. Silenzio.
Due passi. Silenzio.
Tre passi. Dolore e silenzio.
Poi ho sentito i suoi.
Non dovevo voltarmi, o non me ne sarei più andato – tu lo sai quanto la amo.
Mi ha tirato la mano, e mi ha detto
“Resta cu ‘mme”.
Volevo lasciarla andare, ieri notte.’

A Partenope.

Yasmin Tailakh