Cunto di primo inverno ovvero La Rondinella

Fu il primo di dicembre che incontrai Edera per la prima volta. Ero salito verso la parte alta della città, dove ci eravamo dati appuntamento, dov’è collina, per una vecchia e solinga strada petrosa tutta scalette e curve, dove gli edifizi moderni messi là senza criterio sotto il tufo, tra le ville in nuvò stile floreale, si fanno presto grigi d’inverno contro il breve arancio e il ciano del tramonto. Quella sera nel freddo non un odore, il suono soltanto delle foglie cadute dai platani. Dai lampioni pendevano luci rade, senza niente da dire al buio, stanche che avevano lavorato inutilmente per una primavera arida e una selvaggia estate. Edera o Elisa indossava uno scamosciato da maschio di almeno due taglie più grande della sua. Notai che la mascella era troppo grande per il suo viso, ciò un po’ la faceva volgare e creava la strana impressione di un mozzicone di collo, ma dava risalto agli zigomi invece delicati arrossati dal cosmetico, ai lunghi occhi inuit sagittabondi, alla voce dolcerrauca e a quei suoi vasellami di mani il cui anulare sinistro era adorno di una fede sarda. Un tormento la piagava: con tutti i gesti diceva già passato ma non ancora, pareva che l’anima non ci capisse dentro e ricoprisse il corpicino da rondinella come brumoso cascame.
Le cose si misero a fare le mistiche, si piazzarono in posa, si atteggiarono a presagio e ricordo, e trascorse neppure due settimane ecco mi diceva dormiamo insieme dopo il teatro. Le pareti della camera d’albergo che avevo preso, videlicet ricavata da loco di passaggio, erano spoglie: c’eran piccole mensole a filo di materasso invece dei comodini; poi uno sgabello e un guardaroba a giorno.
Persino mancava la scrivania. Vi arrivai tutto solo al pomeriggio, lasciai le mie cose e uscii per distrarmi fino a sera. Dal centro della città al mare non è molta la distanza. La strada si arrende, ora risentita ora languida, fino all’acqua in eterno increspata. Poggiato a un parapetto tendevo l’orecchio all’aria imbarazzata, e un passerotto venne a posarsi molto vicino. Paffuto scricciolino, inclinava il capo scrutandosi intorno, arruffando le piume: cinguettò alcune volte e volò via. Il mattino seguente la rondinella stava stesa di spalle, apparentemente ancora addormentata nella tenebra chiara, oscuramente dolce e dolcemente oscura. Il moiré nero della livrea si radunava dietro l’orecchio bianco, la piccola mano sotto la guancia imbronciava così teneramente le labbra che mi calai per baciarle. Aprì gli occhi e disse torva non mi fido di chi bacia al mattino.

Scorsero come silente volo di gufo dieci giorni, ché chi è ‘nnammurato nun ce penza, e per le vacanze natalizie partii prigioniero più o meno del mio sangue, per un paese di mare. Prendemmo alloggio in una piccola pensione a conduzione familiare, mancaffarlapposta! La notte della vigilia il vento che già durante la sera aveva preso forza, si mise far murmuliare gli alberi in un cortile. Il suono delle foglie al vento somigliava alla pioggia, ma meno aspro, simile a una voce. Il cedro accanto la pensione era più sospirante ancora; l’ascoltai tuttanotte. Al mattino il cielo si illuminò di grigio chiarissimo e giallo rena. Diffusa dalle velature, la luce del sole toglieva ogni profondità alle cose. Le colline apparivano a quattro dita dalla vetrata. Presto il grigio scurì e il giallo si volse in azzurro livido. Dalla finestra guardavo scorrere la salma delle nuvole stravolte in forme cupe e assurde. La pioggia prese a rovinare sull’edificio, bagnando fitta i vetri su cui scendeva in lunghe gocce torte. L’ora si foderò di un blu ottanio che divenne pervinca, fiordaliso e infine acciaio.

Restai così a letto per ore, fino a quando non si svegliò il mio fratellastro. Andò ad aprire l’altra persiana, ma la stanza rimase ancora piena d’ombra. Senza parlare andammo a lavarci e ci rivedemmo nella piccola sala dove veniva servita la colazione. Suo padre e mia madre già vagabondavano. La coppia di albergatori cercava di fare conversazione con un innocuo sacripante seduto nell’angolo opposto al nostro. Era vestito di felpa blu e portava grosse scarpe grigie e bianche da ginnastica coi lacci disfatti. Gettava dei pezzi di torta nel faccione assente, dondolando la testa come un continuo dire sì. Ogni tanto lasciava il pasto per guardare timoroso marito e moglie che gli si rivolgevano come a un bambino. Prima che si allontanasse, la donna gli riallacciò le scarpe. Non chiedemmo nulla, ma ci dissero con dei volti da nonni in pena che pure il sacripante era in viaggio con i genitori, mancaffarlapposta!
La pioggia smise di cadere e lasciammo la pensione per l’ora d’aria prima della tortura di tavola e sedia. Sotto cipiglio di malacqua il mare strascinava maligno la battigia, la faceva lunga lunga, poi corta corta, e sputava in spiaggia alghepellicole, plastiche antiche e conchiglie di San Giacomo e ossi di seppia e ostriche e legni sbiancati e altri schifi od oggetti da wunderkammer. Per un momento tra le nuvole si aprì uno spazio e il sole fece brillare il mare del verde smeraldo torbido degli spiriti. Illuminati a quel modo, i riflessi e le ombre delle onde su se stesse mi apparirono come la medesima cosa e il mare mi disse ah, che bella scoperta! Bell’espressione invero, Orfeastro! E adesso che te ne fai? Camminammo così, con la casa di Circe in vista sull’orizzonte, con sotto i piedi il rumore affaticato dei ciottoli, finché non fu ora di tornare indietro. Lasciando la spiaggia raccolsi il guscio abbandonato di una chiocciola: si frantumò fra le mie dita.
Dopo la cena infinita, dopo le delusioni di mezzanotte, il mio fratellastro e io andammo al porto.
Molte barche erano ormeggiate nella darsena, ma il luogo era deserto. Incontrammo solo dei gatti.
Sulla nostra strada trovammo una piccola costruzione in cemento dell’autorità portuale col soffitto ricoperto di edera rossa. La luce era accesa, ma all’interno non c’era nessuno. Guardando dalla porta a vetri si vedevano una scrivania e un armadietto; sui muri contatori, pulsantiere e un calendario. Salimmo su un frangiflutti attratti dal reboato dei cavalloni. Ci trovammo a calpestare del vecchio nardo, facciaffaccia con la spuma che illuminata dai lampioni appariva dal buio profondo della bocca di Tirreno. A ogni schianto contro le pietre, ci investiva la salsedine esalata nell’aria. Il rumore insieme a quello del vento era assordante. Sollevai il capo e tra le nuvole vidi occhieggiare le stelle già all’imperfetto, immobili.

Che l’ora fosse fuggita mi fu infine chiaro il secondo lunedì di gennaio. Edera, Elisa o Elena beveva troppo delle volte, e la piaga in lei allora si infiammava e chissà quanto le doleva. Cercava di apparirmi indecente, si lasciava andare a certi frattali di monologhi in cui sinonimizzava all’infinito, vanamente cercando l’introvabile termine in cui avrebbe voluto si sovrapponessero l’esser spontanei e la libertà. Durante il parossismo poteva prendermi violentemente per il muso, e con anti-pruderie mettersi a raccontare scabrosi virtuosismi del suo passato. Alle mie reazioni perplesse e imbarazzate si incupiva, mi chiedeva con insistenza se mi piacesse il suo corpo – sicuro, mi chiedeva, sicuro sicuro? – digrignava i denti, stringeva i pugni, dava in lamenti e rideva rideva rideva come se attraverso un prisma provasse a scomporre e ricomporre la tristezza al contrario.
Dopo una di quelle crisi o di un messaggio scoccato nottetempo e letto al mattino, andavo nel panico: precipitavo in uno stoltiloquio analizzante, nolle prosequi, sedicente ancillare ma invero scimunito pretendevo si spiegasse, dimentico che nimium altercando veritas amittitur. Edera, Elisa, Elena o Enrica minimizzava, meditabonda per lunghi minuti che vattelapesca a che pensava, finiva poi per parlare oreore angosciata dalla paura di poterci perdere l’uno nell’altra, dall'orrore di chiuder troppo in fretta la carriera tornando androgino bifronte, lei che era già chimera con testa d’amato e cuore d’amante non corrisposto, e coda di rondine se non si fosse capito. A un punto la radice delle sopracciglia le si contraeva e dagli occhi cascavano lentissime lacrime; stringeva poi le labbra attorno cui i miei baci le avevano sparso il rossetto, ed ecco arrivavano nuove lacrime
ancora. Cosa c’è? le chiedevo carezzandole la testa, disarmato ormai della mia ansia. Rispondeva disperata non lo so, scuotendo piano il capo così che non scostassi la mano.
Quel mattino di gennaio mi venne incontro come Ecate, con i capelli legati in una coda: il loro nero più intenso sulla nuca contro il rosa vaghissimo della pelle del collo, si prolungava nei vestiti funesti. Il proposito era trascorrere insieme una o due ore prima di pranzo, ma tanto mi lamentai per
il freddo e la desolazione delle strade che mi invitò da lei. Poiché sua madre era in casa, faticai ad accettare. Il cielo era coperto al punto da sembrare fosse già sera, così pranzammo alla luce di due grandi lampade da terra. Nella cucina era stato acceso dell’incenso per coprire l’odore del pesce bollito. Si vedeva che la tavola non era stata apparecchiata per accogliere uno che non si sa di chi sia figlio: c’erano macchie e briciole secche di pane; tra madre e figlia c’era tensione, si contraddicevano su tutto a voce di soprano: e queste sono cose che si mostrano solo a gatti, cani e famigliari. Anche la bottiglia di vino coperta di condensa doveva essere stata aperta il giorno precedente. Solo la madre ne bevve. Si mise a parlare a un tratto della propria avversione nei confronti delle dipendenze di ogni genere. Edera, Elisa, Elena, Enrica o Elide intervenne, psicologa pedante, dicendo che la radice di tanta idiosincrasia era da ricercarsi nella morte di sua nonna: con un cancro ai polmoni la vecchia aveva continuato a fumare fino all’ultimo giorno, esasperando la figlia, la quale a seguito del lutto aveva preso una caduta pe’ tutte ‘e scale in un episodio depressivo maggiore, flebo inclusa, che l’aveva resa quasi invalida. Mentre la madre riprendeva la parola, mi volsi verso l’uccellino e trovai lo sguardo inuit già dentro il mio: pieni di un triste desiderio erano gli iridi, come quelli di Persefone che vede spalancarsi la voragine sotto il bellissimo narciso che non ha raccolto. Dopo pranzo le porte delle stanze vennero chiuse. La madre andò in sala a recitare l’ōdaimoku e noialtri in camera a studiare. Guardavo la rondinella abbacinata dai libri in carta patinata, attorniata dalla penombra di una sola brillantissima lampadina. Una volta o due le massaggiai il collo e le spalle, le diedi un bacio. Quando stavo per andarmene mi strinse fra le alucce, mi fece stendere in quel suo piccolo nido di vestiti e carte scritte, di suoi liquori e lagrimelle, perché restassi ancora.
Traversati furono come talassica distesa quattro giorni, ché chi è ‘nnammurato semp’ ce penza, e il sabato seguente ci rivedemmo per un bicchiere di vino. Edera, Elisa, Elena, Enrica, Elide o Erica  pareva smarrita come uccello migratore in anticipo e segno allora di tali terribilia africane da sudovest che per tutti e quattro i mesi senza r si starà affumati sotto altissima nuvola grigia; come uccello migratore fuori luogo e fuori tempo e allora sempre avvisaglia di qualche stranezza, e stranezza spiacevole per chi la sappia scamuffare. Toccò appena il rosso con le labbra e stette in silenzio. Meditabonda per lunghi minuti mi disse infine dobbiamo parlare un po’.

Gian Marco Ferone