Le Signore

Accadde in inverno, al tepore delle cose calde.

La sala di ingresso del casale di campagna era una stanza antica, accogliente: odore di castagne, mura
possenti.

Il camino splendeva per il fuoco e il fuoco riluceva sui mattoncini rossi. Il pavimento lustro era un labirinto di fughe e mattonelle confusionarie: nemmeno una era uguale all’altra. Un divano invecchiato presenziava la stanza, accanto a esso sedie sparse circondavano un robusto tavolo di legno come le api il fiore. Al centro del tavolo un centrino di povera fattura e di sgradevole bellezza. Sul centrino una bottiglia di cognac. I bicchieri intorno, tre di numero. Il fuoco splendeva di riflesso nel liquore e lo rendeva ambrato. Era estremamente suadente e meraviglioso alla vista. La danza della luce sul vetro opaco lo faceva sembrare una cosa preziosa e piena di mistero. Il signore e la signora Willis erano accomodati nella stanza, lui a un lato del divano con la pipa in bocca e sbuffava, lei all’altro lato di questo con gli aghi dell’uncinetto e cuciva.
L’aspetto dei due era quello di una solida modestia in cui cercavano di convivere alla meno peggio e il più pacificamente possibile. La signora Willis sopprimeva i suoi desideri di donna e moglie; il suo sentimento di rancore nei confronti del presente si scagliava con violenza contro la vita che l’aveva preceduto quando si era innamorata, senza motivo, di quell’uomo che aveva sposato quando era più giovane e più forte e più ricco. Ora lo guardava e non trovava motivi per amarlo: non era stato capace di darle un tetto che fosse il suo ma, a causa dei suoi debiti di gioco, l’aveva costretta a vendere il suo terreno e la casupola che vi sorgeva accanto. In quel momento erano i custodi di uno dei tanti stabilimenti che appartenevano alla famiglia Fritzgerald e affittavano camere per conto loro. Non era stato capace di restare forte ma ora, come un albero vecchio si deformava sotto il peso del cielo, lui cambiava le fattezze del suo corpo e da giovane che era diventava un torsolo di uomo. Quello che un tempo era stato suo marito, in quel momento, era solo un vecchio. “E cosa farei se mio marito morisse?” diceva. E non trovava risposte perché provava a cercarle in una fitta nebbia. Non si sentiva avida, né turpe, né vile. Si sentiva solo immensamente sfortunata e mentre si cuciva la coperta pensava: chissà che questa non resterà alla fine il mio unico bene.
La donna non possedeva più nulla di suo se non il frangibile marito e il frangibile matrimonio.

L’ospite- che in un tempo successivo avrebbero saputo chiamarsi David Hamilton-fece il suo ingresso nella stanza scrollandosi il freddo di dosso. Comparve dal nulla con la condensa del vapore sui vetri degli occhiali spessi. Non si può dire se fosse diverso da come la signora Willis lo aveva lungamente immaginato da quando, qualche giorno prima, era arrivato il telegramma che aveva annunciato il suo arrivo con il perentorio ordine di disporre la migliore delle stanze: il che era stato un dramma per la signora Willis che proprio non riusciva a capire quale, fra quelle, fosse la camera migliore. Si ingegnò per trovarne una e scelse la meno peggio: quella che aveva persino il camino e il bagno singolo e il letto arrugginito venne sostituito da quello di un’altra camera decisamente migliore.

Il visitatore era un uomo di bell’aspetto: con gli orchi torvi e la barba che fioriva sui lineamenti duri del volto. Dava di lui l’idea che fosse ricco, non si riusciva a dire quanto, ma l’aspetto del cappotto e dei suoi bottoni, per non dire delle scarpe e del bagaglio, era inequivocabile: quell’uomo non doveva contare sulle proprie forze per mangiare. Fu il signor Willis a fare gli onori di casa al nuovo arrivato mentre la signora Willis era impegnata a congetturare sulla ignota identità dell’uomo e ad appuntare sul quadernino dietro il cuscino del divano su cui stava poggiata, le parole “visitatore elegante”. Quell’uomo era giovane come lei, ed era bello alla maniera in cui la ricchezza rende gli uomini riposati e leggeri di preoccupazioni: la sua povertà non le concedeva invece nessun vezzo e ora, rinsecchita e sbiadita, come un abito vecchio giaceva sulla spalla di una sedia o affossata sull’anca di un divano e piano, silenziosamente, invecchiava.
Quell’uomo che nemmeno ebbe la premura di presentarsi, semplicemente ricordò di essere stato annunciato giorni prima da un telegramma che recitava “dategli la stanza migliore/ aspettatevi una mia visita/ Fritzgerald”. Ma chi fosse questo uomo raccomandato dal signor Fritzgerald in persona proprio non si sapeva. “Lasci che io l’accompagni, le porterò la valigia” disse il signor Willis e lui non aveva risposto, aveva solo annuito. Lo seguì ed entrambi scomparvero sulla tromba delle scale. Non che la signora Willis si aspettasse un comportamento migliore: poche volte nella vita aveva avuto a che fare con i ricchi e quelle le erano bastate a insegnarle come riconoscerli e come riconoscere la loro arroganza, che gli proveniva dalla certezza di potersi sul serio comprare tutto. Da ciò dedusse che il denaro di quell’uomo, quindi, doveva essere molto.
Non ebbe modo di dedicare altro tempo a questi pensieri né alla rabbia che le ribolliva dentro pur restando una mistura fredda che gelava le cose, in un punto indecifrato tra il cuore e lo stomaco, perché un’altra visita-ben più importante- era lì lì per caderle tra il naso e le scarpe. Il signor Fritzegerald aveva annunciato il suo arrivo. Era l’uomo più importante di cui il signore e la signora Willis avevano sentito parlare in vita loro e lo avevano incontrato di rado, forse una o due volte nel corso dell’ultimo anno e comunque sempre di sfuggita. Sarebbe stata quella un’occasione d’oro, l’unica forse dell’intera vita della signora Willis per potersi vantare di avere scambiato due parole con una persona davvero importante e rispettata. Aveva preparato se stessa al meglio: aveva indossato le scarpe migliori, il vestito migliore, le calze migliori e persino messo un po’ di rossetto dell’unico mai posseduto e benché fosse lungi dal sentirsi una regina, dato che la signora Willis aveva l’abitudine di paragonarsi a donne di indicibile bellezza, convenne che era carina.

Il signor Willis ebbe appena il tempo di tornare dalla moglie, di raccomandarle di stare buona e zitta, di lasciarlo parlare e di limitarsi, al massimo, a versare il cognac nel bicchiere dell’ospite importante, quando la porta si schiuse e l’ospite tanto atteso arrivò. Comparve a loro in una forma che li lasciò attoniti e storditi per una manciata di secondi infinitesimali; la signora Willis si riprese solo perché la rabbia, come un’onda,sollevò il cuore che vi galleggiava sopra e lei, per un attimo, avvertì il mal di mare. Cosa credere per non credere che la forma della creatura di fronte a loro fosse quella del Fritzegarld atteso: si trattava forse di uno sbaglio? Di una visita casuale? Era una donna. Una donna bellissima per di più. Fritzgerald era una donna! Una donna di notte, una donna da sola, una donna in campagna, ben vestita e profumata.
Descrivere quella donna ai suoi occhi fu per la signora Willis un momento difficile in cui la sua debolissima sostanza umana prese le forme delle pietre e come le pietre si scagliavano contro le cose, lei si scagliava contro la bellezza femminea di cui si accorse. Le linee dei suoi capelli che ripiegavano in volute, il tessuto della sua pelle che pareva liscia, i simboli della sua ricchezza ai lobi delle sue orecchie, ai polsi e alle dita e ai piedi nella forma di quelle scarpe. Era magra ma la sua magrezza non era fame. Dava l’impressione di essere piena, nutrita, sazia. E profumava. Di sapone, di cannella, di rose e cose che venivano dai negozi come succede ai ricchi. Era lei il Fritzgerald che stavano attendendo: la signora Willis lo scoprì ancora prima che quella si presentasse.

E quella donna era infatti Rose Fritzgerald, moglie di Thorne Fritzgerald, grande magnate e possessore di infiniti stabilimenti e terre. Si poteva dire che ogni cosa nella contea fosse stata o fosse sua. Vantava addirittura un antico titolo nobiliare ma per modestia non lo usava mai. Si sapeva che fosse sposato con una donna che per via di certe cose doveva essere una fata ma i signori Willis, pur sforzandosi, non avrebbero mai potuto immaginarla così bella. La rabbia suggerì alla signora Willis che se avesse potuto immaginare, e avrebbe dovuto farlo, che sarebbe arrivata la signora Fritzgerald e non il signor Fritzgerald avrebbe dovuto indebitarsi fino al collo pur di vestirsi meglio. Il modo in cui si presentava sarebbe stato pure buono di fronte a un uomo ma di certo non si addiceva a una donna così bella che alla luce di quella sciatteria e ancora di più alla luce di quella sciatteria civettuola, ricercata, vagamente rinnegata lo era persino di più.

“Posso esserle utile, signora?” chiese il signor Willis “posso fare qualcosa per lei?”. Rose Fritzgerald aveva
guardato negli occhi la signora Willis e la signora Willis aveva guardato Rose Fritzgerald: si erano dette tutto alla maniera delle donne ovvero silenziosamente. La signora Fritzgerald aveva capito di aver trovato nella signora Willis una nuova nemica e la signora Willis aveva capito di aver trovato un nuovo mito
irraggiungibile da cui non si sarebbe più allontanata. Fin quando congetturava da sola davanti al fuoco su bellezze che mai avrebbe potuto ottenere, poteva sopportarlo e quelle cose le chiamava “fantasticherie” ma quella donna era reale e dopo averla vista, non avrebbe più potuto chiamarla “fantasticheria”, non avrebbe più potuto fingere e rintanarsi nella sua non-esistenza. Avrebbe convissuto con questo tutto il resto della sua vita. “Mi dica, signor Willis, l’ospite è arrivato?”. “Dunque lei è la signora Fritzgerald?”.
“Sono io”. “Prego, le faccio strada” ed entrambi sparirono sulla tromba delle scale.

Quella donna non era solo bella e ricca ma anche straordinariamente sfacciata. Era giunta in una sera d’inverno, da sola, in campagna e aveva chiesto in modo esplicito di vedere il suo ospite e ora si faceva accompagnare persino in camera da lui!

Tutto questo fece una gran confusione nella mente della signora Willis ma questa verità le aveva dato
finalmente un buon motivo per odiare Rose Fritzgerald senza scomodare la vanità, l’invidia e altre cose
indelicate. “Quella donna, che poi in fin dei conti è una bellezza normale” convenne la signora Willis dopo attentissime mistificazioni “è senz’altro un’adultera che è venuta a vedere il suo amante e credo proprio, anzi sono sicura, che il signor Fritzgerald, quel sant’uomo, non ne sia a conoscenza. Certo è ricca ma meglio essere poveri e onesti che adulteri e infelici!”. Odiare era odiare puramente, senza senso, ma  fingere di avere un motivo rendeva il suo gesto più accettabile alla sua morale e a se stessa. “Non era una donna cattiva, era solo una donna onesta” e quel sentimento cattivo diventava, a quel punto, la prova tangibile della sua intangibile onestà.

In un rapidissimo tempo la signora Willis aveva ridotto in pezzi e sgualcito la dignità di Rose Fritzgerald e
per la sola colpa di essere bella e ricca e forse anche capace di guidare l’auto o di avere l’autista e ritenendo di conoscere la sua vita intera l’aveva riempita di molti insulti e cattiverie A quel punto che il signor Fritzgerald fosse un santo, che la signora Fritzgerald fosse una orribile donna capace di mentire al marito per raggiungere il suo amante, che il signor Fritzgerald fosse un ingenuo che aveva riempito la vita di quella “morta di fame” di bellezza, che la signora Fritzgerald fosse stata una “morta di fame” prima di conoscere il marito, erano cose che la signora Willis non sapeva perché nessuno gliele aveva riferite, tuttavia queste favole se le raccontava e se le ripeteva continuamente perché abbellivano la sua vita misera, le sue scarpe misere, il suo divano misero e come la luce del camino si rifletteva sulle cose deformandone l’aspetto, ecco che la luce di queste convinzioni deformavano l’aspetto della sua vita facendoglielo sembrare più accettabile.

Il signor Willis aveva fatto ritorno e lei subito gli aveva chiesto “ma perché è venuta lei e non il marito?”. “Non lo so” le aveva risposto. “Non sai mai niente! E’ chiaro no? E’ un’adultera!”. “A me non sembrav..”
“Cosa vuoi capirne tu!” e lo zittì. Il signor Willis non ebbe modo di dire cosa aveva visto né cosa gli era
sembrato di quei due e la moglie, che non voleva sentire ragione, sentiva infiammarsi quel punto in cui la rabbia covava. Il corpo della signora Willis era intento in una importante trasformazione: come se un fuoco segreto dentro di lei le pittasse le guance di rosso, aveva assunto l’aspetto di un camino con i mattoncini e la fiamma al centro e la cenere calda al di sotto. Quello però non era un fuoco caldo che stendeva tepore dolce sulle cose ma il fuoco incastonato nella sostanza del ghiaccio che, quando lo si tocca, procura quella sensazione di freddo e dolore.

Intanto nel nocciolo della stanza, nel silenzio della campagna innevata, Rose Fritzgerald e David Hamilton, si riunivano in silenzio.

“Che conforto sei per me, che delusione sono per te” proferì David. Rose si tolse i guanti e il cappello e lo
abbracciò. “Siamo cugini, Rose, ma ti ho sempre considerata una sorella e farmi vedere da te così, credimi, mi pesa moltissimo”. Rose lo abbracciò più forte nel tentativo di fargli trattenere le lacrime ma quelle ruppero i confini delle palpebre e sfociarono in un silenzioso e caldo fiume.
“Mi spiace averti messo in questa situazione spiacevole, Rose, ma non potevo fare altrimenti. Non potrei
dire chi sono. Che vergogna, Rose. Ho perso al gioco l’intera eredità dei tuoi zii e ora sono più povero del
nulla. Sono un inetto, Rose, come diceva mio padre e mi viene da ridere a pensare che questo vizio forse, io l’ho ereditato proprio da lui. Cosa penserebbe di me mia madre, adesso, cosa penserebbe..” e continuava a piangere nella disperazione di non poter dire chi fosse ad anima viva perché lo aveva colto il terrore che chiunque potesse vendere la sua posizione ai creditori assassini che lo cercavano ovunque. “Risolverò io i tuoi problemi, David, non dispiacerti più. Sapevi che potevi stare a casa mia e non qui, in questa camera di campagna. Lo sai.”. “Lo so, ma io preferisco così, se non ti dispiace” e conversarono a lungo di cose che noi non possiamo sapere.

Quando ebbero finito di parlare, Rose Fritzgerald comparve di nuovo nella sala dove i signori Willis erano
intenti a pensare e ciascuno facendo le sue cose , non si diceva nulla e ignorava l’altro. Rose piombò in
questa atmosfera come un tonfo, facendo il rumore che fanno i sassi quando cadono al suolo. “Oh signora Fritzgerald” disse il signor Willis “cosa possiamo offrirle prima che si metta di nuovo nella tormenta?”. Fuori la neve gelava e copriva le cose. “Possiamo offrirle del the? O del latte caldo?” continuò. Rose intanto si era tolta il cappotto svelando agli occhi avidi della signora Willis il suo vestito rosso e lei, notandolo, si incupì.
Rose notò sul tavolo la bottiglia di liquore e “un goccio di quello, signor Willis” disse “lo prendo volentieri”.
“Ma quello è liquore” disse lui innocentemente “lo avevo preparato per suo marito perché ero sicuro che
sarebbe stato lui a venire!”. “E perché mai sarebbe dovuto essere lui a venire? Cosa le dispiace del fatto che sia venuta io invece?” chiese lei sorridendo e intanto si serviva il liquore da sola e intanto la signora Willis scopriva che la rabbia si era ritirata per fare spazio a un meno comune odio. Quale fosse la ragione di quell’odio, scomodando una parola importante, era sconosciuto pure a lei stessa: forse erano state le
scarpe, forse le calze, forse le scarpe e le calze, forse i capelli o il rossetto o la voce, o l’indipendenza o il
riflesso di lei al fuoco che lanciava un’ombra sulle pareti che, senza vergogna o pudore, guardava fissa la
signora Willis, ricordandole di non poterle somigliare.
“Non volevo offenderla, signora Fritzgerald, è solo che..”

“E’ solo che era molto più ovvio per lei credere che fosse mio marito a curare i miei affari e non io stessa” e bevve un sorso. Al che la tempesta nella pancia della signora Willis sommerse il cuore e quello naufragò.
“Mi perdoni, signora, se non riesco a capirla..”

“Bene, dal momento che non abbiamo mai avuto modo di parlarne e questa mi sembra l’occasione giusta, le parlerò ora. Lo stipendio le è arrivato, signor Willis? Questo mese, intendo.”

“Oh, ma certo signora. Anzi ringrazi suo marito per la puntualità..”

“Sono io, signor Willis, sono io che le mando lo stipendio che merita lavorando e sono io a mandarglielo
perché lei lavora nella mia proprietà e non in quella di mio marito. Io sono Rose Fritzgerald dalla nascita e ho sposato Thorne Thompson. Quindi, giusto per evitare altre incomprensioni, sia chiaro, lei risponde a me e i pigionanti delle altre proprietà e i dipendenti delle altre strutture rispondono a me, Rose Fritzgerald e coordino io in persona i miei conti bancari. Spero che non vi sia di troppo disturbo, signori Willis.”

Il signor Willis si scusò innumerevoli volte e si sentì molto imbarazzato all’idea che il telegramma gli fosse
stato inviato da una donna, che il cognac da lui preparato fosse stato bevuto da una donna, che lo stipendio gli venisse pagato da una donna e che lavorava in una casa di una donna alle dipendenze di una donna. Che il signor Fritzgerald fosse padrone di tutto e che lui fosse padrone di niente era angosciante ma accettabile. Che la signora Fritzgerald fosse da quel momento in poi la figura cui aveva sempre sognato di assomigliare per ricchezza e potere era angosciante e inaccettabile.

Il fuoco del camino splendeva come se si riflettesse sugli specchi negli occhi della signora Willis. La rabbia convertita in odio e quel freddo avevano prosciugato le forze dei suoi nervi e ora non parlava, implodeva soltanto.

La signora Willis si sentiva come se quella donna di fronte a lei a essere così bella le avesse rubato quella parte di bellezza che, in sua assenza, le sarebbe invece toccata; come se quella donna di fronte a lei a essere così ricca le avesse rubato quella parte di ricchezza che, in sua assenza, le sarebbe invece stata data dal mondo; si sentiva come se tutta quella indipendenza le rubasse indipendenza e la incatenasse al
camino, al divano, al pavimento con le mattonelle in disordine, allo “stai buona e zitta”.
La visione di quella donna, l’immagine di lei che le venne quando iniziò a fantasticare, a fantasticare, a
fantasticare la poneva in quadri di insopportabile perfezione. Nella sua immaginazione Rose Fritzgerald era inquantificabilmente più bella di come fosse in realtà. E la sua indipendenza puntava contro la sua
debolezza e la sciatteria di cui colpevolizzava il marito che, alla luce di queste nuove considerazioni, era
diventato un aguzzino e un mostro. Il pover’uomo con la gobba e le gambe secche nei calzini e nelle scarpe era diventato il custode della sua giovinezza e il ladro dei suoi successi. “Chi sarei stata? chi sarei stata?” Se fosse stata come lei, quella donna le sarebbe sembrata meravigliosa ma in quella condizione, lei era solo il riflesso di ciò che aveva sempre desiderato di essere.

Allora quando la signora Fritzgerald salutò e andò via e il signor Willis tornò alla sua pipa e a fumare, la
moglie di lui- la signora Willis- continuò a gelare, a gelare, a gelare mentre ogni oggetto tornava alla sua forma naturale, al tepore delle cose. E il signor Willis si accorse che la moglie era morta solo quando, diverse ore dopo, chiese altro tabacco e non ricevette risposta.

Arianna Orlando