Lo schiavo

«Vieni tesoro, massaggia qui» disse la donna seduta in poltrona facendo segno con l’indice dietro la nuca, mentre, con l’altra mano, pigiava il tasto rosso del telecomando.
Armando raggiunse la moglie alle spalle, le rimosse la parrucca dal capo e l’appoggiò sul tavolo. Guardò per un secondo la testa stempiata con i radi e sottili capelli bianchi, sospirò, poi iniziò a massaggiarle la cute con i polpastrelli.
La donna saltò tre canali poi finì su un quiz televisivo. Quattro soubrette con vestiti succinti ballavano accompagnando la sigla.
Armando pensò al vecchio lavoro che detestava. E ancora una volta si domandò se abbandonarlo fosse stata la scelta migliore. Come se avesse barattato una schiavitù per un’altra, si vergognò della propria debolezza, dal dover dipendere dalla volontà e dal potere altrui. La sua vita gli parve un’assurda penitenza, un fardello da portare, come se si stesse consumando in preda ad eventi e decisioni che non controllava.
«Prendimi un Alka-Seltzer tesoro» disse la donna.
Armando continuò a massaggiare la testa sovrappensiero, fissando la tv con sguardo vacuo.
La donna si voltò e con una torsione del collo verso sinistra e guardò il marito appena un attimo.
Spense la tv pigiando con stizza il tasto rosso del telecomando.
«Brutto schifoso che non sei altro… appena vedi un sedere o una minigonna in televisione sbavi come un maiale» disse la donna inviperita «corri prendere l’Alka-Seltzer! Subito!»
Armando sussultò appena un attimo poi corse in cucina. Fece sciogliere la pastiglia in mezzo bicchiere d’acqua. Vide le bolle risalire verso la superficie poi chiuse gli occhi, sospirò, e portò il bicchiere alla moglie.
«È l’ultima pastiglia» disse malinconico, porgendole il bicchiere.
«Allora domani mattina vai a comprarmi un’altra confezione» rispose la donna con disprezzo «ora continua… continua a massaggiare.»
Armando andò alle sue spalle, sbuffò silenzioso, poi riprese il massaggio.
Il giorno successivo si recò al centro commerciale. Comprò l’Alka-Seltzer in farmacia, passò al tabacchi, comprò le sigarette e ne fumò una all’ngresso del centro, davanti al parcheggio. Stava aspirando il tabacco con voluttà quando vide un cane sbucare da dietro la grossa colonna che sovrastava l’ingresso. Era un carlino dagli occhi sporgenti, strabico, con la coda arricciata in una lunga spirale. Tirava il guinzaglio grugnendo con piccoli versi aspirati simili a grugniti. Armando
guardò con simpatia quel cane che si avvicinò ai suoi piedi. Si accovacciò, gli accarezzò il capo col palmo della mano poi il cane passò oltre. Seguì il distrattamente il filo del collare fino a quando sbucò davanti il padrone. Armando rimase impietrito. Quell’uomo aveva qualcosa di sconvolgente negli occhi, nel viso, nel corpo. Lo guardò con stupore, lo stesso stupore che lo sconosciuto, di riflesso, riservò alla sua vista. I due si fissarono immobili per alcuni secondi come se scorgessero uno nell’altro l’enigma dell’esistenza. Il carlino tirò il guinzaglio. Lo sconosciuto si mosse lento, assecondando il volere del cane, con lo sguardo fisso su Armando. Furono lunghi secondi di irriducibile stupore poi lo sconosciuto si voltò e proseguì preceduto dal cane. Armando lo guardò di spalle mentre si allontanava e non poté credere a ciò che aveva visto. D’un tratto, ebbe un’illuminazione e pensò che dopo poco l’uomo si sarebbe perso tra la folla. Aspirò
velocemente la sigaretta, la gettò a terra fumata a metà e si incamminò nella direzione dell’uomo.
Lo seguì per circa venti minuti. Senza farsi vedere. Pensò alle parole da dirgli ma ebbe il timore di esser preso per folle. Quando vide l’uomo avviarsi verso l’uscita capì che avrebbe dovuto agire subito. Con poche e veloci falcate, raggiunse l’uomo e gli arrivò alle spalle.
«Mi scusi» disse con decisione.
L’uomo si voltò sorpreso.
«Non ho potuto fare a meno di notare la somiglianza tra noi due» riprese muovendo con l’indice tra il suo viso e quello dello sconosciuto.
«È vero! Lei mi somiglia molto!» Disse con voce distaccata, come se la cosa non lo interessasse.
«Ecco io… vorrei…» proferì incerto «vorrei proporle proprio un affare.»
«Che tipo di affare?» replicò con ritrosia.
Armando rovistò nelle tasche, estrasse lo scontrino della farmacia e scrisse sul retro il suo numero di telefono.
«Dovrebbe fingersi me.»
L’uomo sollevò le sopracciglia nere e folte appena un istante, rise, poi si voltò per andare via.
«No aspetti!» Implorò Armando e subito dopo lo raggiunse con due rapidi passi.
«Sono pronto a pagarla. Mille euro… mille euro per un week end. Lei non deve fare altro che fingere di essere me, solo due giorni e una notte.»
«Amico non ho voglia di scherzare» rispose con un tono di arroganza.
«Nemmeno io» replicò Armando porgendogli lo scontrino «ci pensi per favore!»
L’uomo prese quel foglio di carta, guardò Armando in volto, diffidente, poi si mosse chiamando il cane a sé.
Quando Armando tornò a casa dovette giustificarsi del ritardo con la moglie. La donna inveì a lungo maledicendolo e insultandolo e accusandolo di aver commesso adulterio mentre lui la guardò
con gli occhi grandi e vuoti. Quando si fu calmata, lo costrinse a guardare la televisione sul divano, accanto a lei. Dopo qualche minuto, finse di dover andare in bagno, e lì pianse come un bambino.
Passarono tre giorni e il telefono di Armando squillò.
«Me li dai veramente mille euro per un weekend?»
L’uomo trasalì sentendo quella voce rude. Guardò la moglie che dormiva sul divano e corse di soppiatto a chiudersi in bagno.
«Puoi giurarci!» rispose appena fu certo di non essere udito «vediamoci tra dieci minuti all’ingresso del centro commerciale.»
Tornò in soggiorno, si assicurò che la moglie stesse ancora dormendo poi tornò in bagno e uscì dalla finestra di nascosto.
Raggiunse il suo sosia e gli rivelò il piano nei dettagli: doveva indossare un suo pigiama e fingersi malato con febbre, mal di testa e dolori articolari. Sarebbe entrato di nascosto in casa sabato mattina e uscito, con le stesse modalità, domenica notte.
«Perché dovrei fare una cosa del genere?» domandò l’uomo prima che Armando potesse finire la descrizione del suo piano.
«Perché ho bisogno di un weekend di libertà.»
«E non puoi farlo come fanno tutti senza farti sostituire da uno che finga di essere te?»
«Mmm… purtroppo no» rispose evasivo.
«Spiegami, sono troppo curioso.»
«Ecco vedi… io… non posso uscire, mia moglie mi controlla.»
«E cosa sei uno schiavo? Domandò l’uomo in preda ad una risata.»
Armando lo fissò torvo.
«Vuoi dirmi che sei davvero lo schiavo di tua moglie?» Insistette l’uomo ora serio in volto.
«Ora basta!»
«Ok facciamo come dici, un weekend per mille euro… certo che siamo davvero identici!»
«Già! Acqua in bocca però…»
«Promesso!» esclamò alzando il palmo della mano «toglimi solo una curiosità: perché non lasci tua moglie come farebbe qualunque uomo con un po’; di sale in zucca?»
«Non posso! Non saprei come vivere altrimenti!»
«Sei un mantenuto!» esclamò sogghignando.
«Queste considerazioni tienitele per te, io ho fatto scelte di vita poco felici e ne pago le conseguenze ma sono qui per proporti un affare non per farmi giudicare. Ricorda che dovrai tagliarti i capelli, toglierti quella fila a lato e tirarli all’indietro, come i miei. Poi devi raderti.»
«Si può fare ma non credo che funzioni, vuoi che non se ne accorga che non sono tuo marito.»
«Certo che se ne accorge, ecco perché ti fingerai malato: per interagire il meno possibile con lei. In questo modo maschererai anche la voce fingendoti raffreddato.»
«E per questa piccola fossetta?» indicò l’uomo con l’indice verso il mento.
Armando la squadrò con attenzione.
«Rimani al letto al buio solo con la tv accesa. Nella penombra non se ne accorgerà.»
L’uomo annuì con una smorfia, poi i due si accordarono sul compenso: cinquecento subito e l’altra metà domenica notte. Definirono i dettagli e andarono via.
Sabato mattina si incontrarono nella villa, di nascosto. Il sosia entrò dalla finestra del bagno. Si presentò rasato e con i capelli in ordine. Armando gli fece indossare il pigiama e gli diede le ultime disposizioni prima di lasciarlo sgattaiolare in camera da letto.
Appena uscito, Armando si sentì una persona nuova, libera come non lo era mai stato. Passeggiò in centro, incontrò vecchi amici, andò in piscina. Dormì con una prostituta in una camera di albergo, poi andò al cinema, cenò in un Sushi bar e terminò la serata in un pub.
Tornò a casa a mezzanotte, orario concordato per il rientro. Entrò dalla finestra, ma appena mise un piede in bagno si trovò il sosia di fronte. Si muoveva con gesti rapidi e nervosi.
«Cos’è successo?» chiese Armando leggendo la preoccupazione sul viso del sosia.
«Cos’è successo? Ecco un piccolo incidente… ma ho già sistemato tutto.»
«Che incidente? Dovevi limitarti a stare a letto!»
«Sì ma vedi… c’è stato un inconveniente.»
«Un inconveniente?»
«Beh tua moglie ci ha scoperto. Si è accorta che non ero te questa mattina quando mi sono alzato dal letto.»
«Ma ti avevo detto di fingerti malato!»
«L’ho fatto! Ma dovevo andare in bagno.»
«Cosa è successo?»
«Che mi ha seguito… si è accorta che non ero io e voleva chiamare la polizia.»
«E tu cosa ha fatto?»
«Ecco l’ho spinta e lei è caduta. Fattelo dire amico… è una donna davvero insopportabile.»
«L’hai spinta? Ma.. ma ora come sta?»
«Mmm… non è proprio in forma… ma poco fa ho chiamato l’ambulanza. È in arrivo.»
L’uomo finì di dire quelle parole e si dileguò dalla finestra.
Armando si precipitò in soggiorno. Trovò il corpo dell’anziana moglie, prono, riverso sul pavimento in una pozza di sangue che le circondava la testa.
Nemmeno il tempo di pensare cosa fare che giunse l’ambulanza. Il personale medico non fece altro che constatare il decesso e informare la polizia che giunse subito presso la villa.
Agli agenti che lo arrestarono Armando avrebbe voluto descrivere il suo piano ma si limitò a sussurrare tra le labbra:
«Ora mi toccherà il carcere» quasi presagendo la nuova schiavitù a cui si sentì destinato.

Angelo Lachesi