Lo strappo.

Non sopporto quelli che non mangiano il gelato in inverno solo perché fa freddo. Non sopporto i video che vogliono spiegarti come preparare un esame di 1000 pagine e 6 manuali in 3 giorni. Non sopporto la rima fiore/cuore/amore. Non sopporto l’ostentazione, il non-è-colpa-tua-ma- neanche-mia, quando mi viene in mente una cosa giusta da scrivere e poi la dimentico, quando mi viene in mente una risposta giusta da dare però è tardi, quando mi viene in mente una reazione giusta da avere però mi fermo. Non sopporto il silenzio (a volte), non sopporto neanche il rumore (a volte). Non sopporto le cose semplici, mi incasinano quelle difficili. Non sopporto il sole delle due in agosto, non sopporto agosto. Non sopporto i libri di autori che non sanno scrivere, le canzoni di chi non sa cantare e i film brutti. Non sopporto dormire il pomeriggio, non sopporto non dormire di notte. Non sopporto chi crede all’oroscopo, ma neanche chi non crede mai a niente.
Non sopporto i “non ce la fai” quando avresti potuto farcela e i “ce la fai” quando ti serve sentire che pure se non ce la fai non fa niente. Non sopporto le foto di quei paesaggi di coste frastagliate, pianure verdi e il cielo grigio, che sono sempre in Irlanda o in Scozia. Non sopporto quelli che mentono a loro stessi. Quelli che “se non ti sta bene, vattene” e quelli “se non ti sta bene, cambio”. Non sopporto i tuoni. Non sopporto le domande, i discorsi, non sapere star zitti. Non sopporto la domenica. Non sopporto un sacco di cose.
Sopportavo te. Te ne sei andato. Ieri notte ho sognato che facevamo l’amore. Mi sono svegliata che ero sudata e stavo bene, come se l’avessimo fatto veramente. Poi m’è venuta quella malinconia che davvero a volte ti prende dopo che hai fatto l’amore. Mi è dispiaciuto averlo sognato, perché ieri sembrava iniziassi quasi ad abituarmi al fatto che mi obblighi alla nostalgia. E invece oggi sono malinconica di nuovo perché tu non mi hai dato niente e io ti ho lasciato prendere tutto. Sapessi scrivere poesie ora non ci starei così, perché almeno avrei la consolazione di averci cavato qualcosa di buono da questo buco nero che invece risucchia e basta e non mi lascia niente. E il niente mi ha sempre fatto schifo. Patetica, la tristezza che mi procuri mi fa notare di più il mio naso che non mi piaceva neanche prima. Da giorni sono quasi sempre sul punto di piangere. Quasi, appunto. Non piango mai io ed è un problema perché sapessi piangere allora forse scriverei pure le poesie e il buco nero non sarebbe solo un buco nero che risucchia e basta e non lascia niente. Avevo notizie di te con una regolarità che sapeva quasi di urgenza di farmi sapere le cose e ora che non so più niente mi punge dappertutto l’esigenza di sapere che fai, con chi lo fai, hai mangiato, cosa hai mangiato, hai studiato, cosa hai studiato, ti sei allenato, com’è andata, hai il raffreddore, hai fatto il fumento, hai giocato, hai vinto, no hai perso, pazienza, vincerai la prossima volta. Ho perso pure io e forse perché ti ho sempre chiesto come stai e forse la cosa ti ha annoiato. Forse ti ha annoiato che quando lo chiedevi a me ti dicevo sempre di star bene. E se mi chiedessi che faccio io, ti risponderei che passo il tempo con cose a caso, per cui leggo, scrivo cose come questa, guardo film lunghissimi per occupare le ore, mangio malissimo ma mi alleno tutti i giorni, tranne il sabato e la domenica, studio, do ripetizioni e mi sembra sempre di non fare niente, per questo quando mi chiedevi “che hai fatto questa settimana”, rispondevo con un secco niente. E il niente a me fa schifo, forse ha fatto schifo anche a te. C’ho il sehnsucht. Lo dicevo l’altro giorno ad Alessandro. Sto lì a fare cose oppure a non fare niente, e arriva il sehnsucht e mi pizzica. E il buco nero si espande, arriva alle corde vocali, divora la voce, pare quasi che debba vomitare. Non vomito. Ingoio. Non c’è saliva da ingoiare, perché è tutta negli occhi e a quel punto benedico Dio, forse sto per piangere, se piango finisce, se piango la smette, che forse il buco nero è solo una macchia da lavare, e invece no, il liquido torna indietro, mi sembra quasi una cosa che mi scorre in corpo e non ho capito se mi indebolisce o mi rafforza; il buco nero si restringe e mi seda il bisogno che ho che tu venga a ricucirlo. È che non so se questo strappo cosmico, questa lacerazione astronomica che mi sono lasciata fare dalle tue mani nude sia riparabile. È indubbio che io la stia facendo troppo lunga, ma devo riempire il silenzio e quindi mi servono le parole. Non stavamo neanche insieme e sapevo che mi stavi scavando dentro pure se non m’amavi. Mi bastava che avessi voglia di lasciartelo fare. E allora l’ultima volta che t’ho visto un po’ ho pensato che se non mi fidavo al punto da mostrarmi vulnerabile con la mia storia, con la mia paura, allora se ti avessi tenuto dentro avremmo capito senza le parole, e io ho voluto che tu mi esplorassi, ti soffermassi sui miei monti, colli, pianure e ponti, e io mi sono trovata così in pace che a quel punto neanche sapevo più se preferivo averti sul collo o nel cuore.
Del resto tu hai fatto come quello lì che è arrivato in America e pensava di essere in India, quindi cercavi spezie e cose preziose, e più esploravi e più non le trovavi. Ogni tanto ti fermavi, mi guardavi, quasi stanco.
Poi riprendevi, con più impeto, più forza, ogni volta con un coraggio diverso, del tipo “qualcosa questa volta la trovo”. E per questo scavavi. Scavavi. Scavavi. Hai scavato. E mentre scavavi mi hai detto di volermi bene. Mi baciavi e volevi baciarmi. Baciandomi mi hai salutato. E il giorno dopo era tutto normale e tu c’eri sempre. E due giorni dopo è cambiato tutto e te ne sei andato. Ti ho chiesto perché, non mi hai risposto. Non è successo niente e il niente fa schifo. Avessi litigato con te ora avrei la risposta. E invece no, hai smesso di parlarmi e basta come fanno certi bambini che si arrabbiano per capriccio e vogliono attenzioni e io so che se pure te le dessi, se pure tu tornassi, il buco nero resterebbe lì, a ruotarmi nello stomaco, a risucchiare tutto, pieno di te che scavi ma non trovi nulla. Dicevi che prima o poi ti avrei fatto male. Non m’amavi, mi chiedevo come avrei potuto fartene se non potevo neanche mancarti. Se tornassi ora, invece, forse te ne farei, saprei fartene. Mi metterei lì a non risponderti, irritante, ti farei parlare da solo senza considerarti. E allora tu sapresti cosa vuol dire credere di essere voluti bene ed essere invece solo terra da scavare. Però tu non sei solo terra. Io ti voglio bene e questo è l’alibi che uso per non difendermi veramente, ché se anche ti avessi di fronte ora e i tagli, le lacerazioni, gli scavi, fossero reali e non l’iperbole tragica a cui la mia scrittura vuole cedere per gonfiarsi di un certo strazio che a volte sembra emozionante da leggere, la mia prima domanda sarebbe sempre com’è che stai. Se lo chiedessi tu a me, la mia risposta sarebbe sempre bene, però questo perché sono orgogliosa e che mi hai fatto male non te lo direi. Non te lo meriti. Perché ecco, vedi, alla fine io sono forte. Me ne sto rendendo conto ora che mi sento debole. Perché pure se ora ho il buco nero, lo sopporto, e i miei esami li farò lo stesso. Tempo, mi serve tempo e forse la sua forza si esaurirà e la smetterà di risucchiare il nulla, chissà che il nulla non inizierà a fare schifo anche a lui e allora mi lascerà in pace e non mi ingoierà.
Non sopportavo un sacco di cose. Sopportavo te. Te ne sei andato. Non sopporto niente.

Giorgia Orlando