MORTALI
Dice il detto: si migliora a tutto andare,
e un altro dice: natura chiama. Sentiamo
il polso equatoriale di una zampa
e battito di stilla, sentiamo
il movimento della vita. Ma
è nebbia che dà casa agli animali
che in sventura si condensa.
Anche le volpi, astute
ritornano alla madre, aculeo
doloroso infitto fino
al sogno. A noi
per infanzie ricorra
facchini al suo fondo celeste,
se il mistero si sillaba infinito.
Infanga glorie il mondo
e schiene incurva
in una spinta d’uomini,
danno lieve il piacere
per culmini di tempo. A noi
ci imbrigli il fiato e sia fortuna
sapersi a voce e tuttavia
ancora riconoscersi, mortali.

MALATI
Noi non siamo malati. Ci uccidono
il giorno col chiasso del sangue,
il traffico e un sentimento di burrasca.
Al risveglio, in camera, c’è l’eco
incollata d’una sirena, la vasta
sonorità d’un’ambulanza in bassorilievo nella malta. A noi malati
schiariscono vecchie stagioni
le donne scollate dai muri, noi
sopravvissuti alla luce, l’incerta luce
dei capodanni di quartiere.
Siamo fermi al possesso, al dolore
di chi non sente ragioni, di chi
non diserta, virtù del veleno
che morde, che salva a seconda.
Per questa malattia ci diranno
salvi, i sonnolenti signori, abili
nelle speculazioni, nelle varie
transazioni finanziarie. Guardiamo
chi grigi padri onora, le mani
già pugno di terra e le aurore spórte
alle figure leggendarie. Attaccati
a una vita che, noblesse oblige,
ci scaldi a un sole di panchina, rimessi
alle tutele atone del tempo, ci siamo:
sta in agguato una minaccia, una
totale disgregazione d’atomi ma,
dicono, nessuno ci farà del male

SOGNI DI EMIGRATI
Hanno nei teneri occhi un’aria
di terra, calda
pellicola di gigli e carrarmati,
il cielo troppo azzurro
dei paesi barbari o in guerra, dove una moneta
d’oro si baratta per un santo.
Hanno un sogno di antico colono
in queste terre: emigrati
fra i terrazzani nel bianco
cielo delle limonaie, amico alle cumane
colline precoci di frutto, tra case
basse a un grembo d’aria bionda.
Ciascuno ha un sogno. La luce
decollata giù dal finestrino
di colpo semichiuso, sveste
la gioia quando è sera.
È tardi per questo convoglio. Dal vetro
si vede oltre i campi all’incasso
un’aria felpata di polline
cupa: il mal tempo.

SECONDOGENITO
Si consiglia la scrittura
a chi di cellule padre
non serve la vita, ma è sangue
lesionato che scoscende
ai parapetti di sua
secondogenitura.
Pagare sudore, portare macchine,
stringere al petto un mazzo
d’aria graffiata o meglio le chiavi
e chiudere bene il cancello,
guidare la porta blindata, biondo
scalciare il mondo fuori.
È la stirpe impazzita, il ramo
scheletrito che nel giorno
non frutta a una volta
ma cieco gli dura fatica
se lo prova e neanche gli riesce suono
nel darsi a fato corto nel futuro.
Dal tuo concetto svio
come svirgola la luce
dalla lucida curva di un violino.
Rispetto il silenzio, subentro
d’un risveglio a indizio
e miniatura d’ore.
Riscatto il senso, eguaglio il mondo,
ora che sono nato.