Carezza la pelle dell’albero
senza arrossire, pronuncia
scoprendone il corpo
le cicatrici:
“corteccia”, “radici”.

Tieniti stretto
al frutto, al tempo
come i serpenti.

Scandita tra i denti
la resina tronca
di netto l’abbraccio,

pendono, legati a un laccio
i rami, i morti, i canti.

_____

Sento il rumore della morte
mentre mangio il gelato,
ogni vita diventa peccato
se non hai difese di sorta.
È la colpa di non avere colpe
per sottrazione d’amore.

Divento parte del creato
in questo inutile stato:
sporco i miei abiti,
faccio il bucato.

_____

Prima di bruciare avrei voluto dire
che tutto è stato perdonato, tutto
dimenticato, anche le cellule
in volo, libellule infuocate
del corpo che tu stesso
hai sfiorato entrando
in ciò che avevo di più sacro,
di più divino, devono morire
per donarmi nuova pelle.
Perdonami se puoi il silenzio,
bisogna ricordarsi di morire
sempre un po’ ogni giorno.

_____

Ho domandato agli alberi
se avessero notizie di te.
Ho respirato la terra
e l’erba che secca
lenta. Il sole
mi ha disegnato l’ombra
lunga lunga lunga
e alle foglie
ho sussurrato segreti.

Come un guizzo
– io e il tempo,
sul pelo dell’estate.

C’è un vento gentile
e le cicale che mi parlano
in dialetto.

Sto tutta calma
come un lago.

Ora vado: anch’io
come te correndo, che i capelli
non riescono a starmi dietro:
anche loro come te
narrando un addio.

E se ti perdi
chiedi indicazioni agli alberi.
Ad uno ho lasciato
notizie di me.