Le briciole, la polvere, i capelli
sotto i divani, agli angoli si ammucchiano,
memento mori della consuetudine,
di giorni senza calendari appesi
e condannati, per soffocamento,
a morte tutte le ventiquattro ore.
Siamo io e te in questo conto alla rovescia
come principi dell’equivalenza
alle variabili delle funzioni.
Nel susseguirsi delle cifre a schermo
riportiamo le nostre differenze,
moltiplichiamo rimanendo due.
Risolviamo le nostre sottrazioni
per arrivare insieme al giorno zero.

Dovresti esercitarti alla misura,
trovare l’equilibrio,
allontanarla e tenerla vicina,
essere un’ape accorta,
prudente, preso il fiore farne miele
col poco che rimane.
Ma preferisco la cupa falena
che s’accieca, si brucia
in vibrante silenzio si tortura,
sbatte contro la luce,
si contorce, si rialza, perde le ali,
si ferisce e continua.
Guarda la sua ombra, vedrai la tua vita,
mi ripeto ogni notte

Terra, terra di coste e di ricordi
sui cementi, rovine di limoni.
Colonne, capitelli, archi, parenti,
costretti, rassegnati a vivere oggi
dove domani moriranno soli.
Stretta tra mari, fiumi e terremoti,
tangenti e scarti umani,
isola bella solo da lontano,
al riparo di esili volontari.
Senza futuro tremi
e con storie di imperi ti consoli.
Poeti in cerca di rima e di naufragi,
sono ricchi i tuoi porti
di santi declamati senza incensi.


Lo scialbo palinsesto mattinale
del dì di festa precede del pranzo
l’antipasto: il formaggio, le verdure,
il pinzimonio, il salume, il carciofo.
Di sugo e vino si macchia il mesale
che nel passaggio tra primo e secondo
traduce in segni le ricche portate.
Una sosta, la frutta poi il caffè.
Se si è mangiato troppo, l’acquavite.
Una mezz’ora di siesta con scialle,
la digestione che scalda, il tepore.
Ancora a letto si accende la radio.
L’orecchio sul cuscino e la partita
di campionato che sveglia alle tre.