Un furetto del 4000 a.c.

Quando caddi accidentalmente nel buio
di un mondo trasparente,
quel mondo
dove gli uccelli antichi
hanno la consistenza del vetro,
dove i piedi ovali degli avi
hanno lasciato impronte
come vasi coltivati,
dove un braccio, un dito, un fogliame umano
prendono forma di germoglio per un istante
e poi volano sotto una gonna di tenebra,
fu la prima cosa che vidi.
Era un furetto,
esemplare di un’unica specie di furetto selvatico
che correva premendo i muscoli
e i suoi piedi corvini
sul suolo,
nuotando in un mare di phlox.
Forse era nel Kentucky,
forse nel Tennessee,
ma in quel preciso istante
la mia vita fu caldamente spruzzata
di immagini prese a morsi,
frantumate.
E in questo mondo scorticato,
senza alfabeto, senza divinità cristiane,
e in questo mondo
che non aveva ancora conosciuto
mattanza di civiltà,
quel pelo di furetto durò un attimo.
Avevo visto qualcosa che sarebbe
riemerso ed annegato
nei canestri di frasi
che i bambini intrecciano
nelle mense di scuola,
o una parola colata a picco
nella crema di un gelato,
farfugliata per scherzo
e poi lasciata precipitare
dalle labbra:
“Ti sfido: sarai pure un furetto, ma del 4.000 a.c.”
Quando tornai accidentalmente nella luce
di un mondo appariscente,
pensai al furetto che ebbi fortuna
di incrociare nel sogno
di un colpo di sonno,
e a tutte le cose non-conosciute.
E se fossero realmente esistite?
E se non fossi mai esistito?

 

Ipotesi su alcuni scomparsi

Dov’è finito realmente Magellano?
Non nego con certezza
che lui si muova ancora di palma in palma
che mangi bacche e non sia morto a Mactan,
e abbia sei figli e sessanta pronipoti
– molluschi brancolanti nel tempo –
e seicento vascelli
che scoppiano di bambini marroni.
Dov’è finito realmente Majorana?
In qualche atomo dell’Atlantico,
si spacca il seme di un temporale
che scuote voci a brandelli.
E per noi sono invece dolorosamente immoti,
incapsulati nelle ipotesi genealogiche
(Wikipedia, Ancestry, Findmypast)
protesi digitali
fugaci come squama di lupo
che di notte è grano di luce.
Ci sono oceani di defunti
nell’Atlantico,
aggrovigliati a relitti:
una mascella alessandrina,
la chiave di un castello medievale,
una ricetta medica,
un orologio da taschino.
E se la schiuma dell’ipotesi
non si assottiglia nell’acqua salata,
gli scomparsi giocano a nascondino:
con punte di coltelli
reincidono le date sulle tombe,
lasciano doni umidi nei letti dei vivi.
Saltellando su cumuli di spuma oceanica,
uno spettro di nome Ettore
è giunto dall’Italia in Kansas,
ed ogni sera corre
e salta, e balza
come capra di zolfo
ad annerire il cielo:
accende fuochi atomici
come gli indiani,
e l’Immaginazione,
dalla sua plancia,
crede
che egli sia ancora vivo.

 

Lacustrità

Il nitrito del motore
non era bastato,
troppo tardivo.
Erano così precipitate
(e una, e due e tre)
le nautomobili,
tranciando il nero midollo
dell’acqua scura,
levando l’onda
che esplose dissetando
gli insetti notturni,
i chirotteri,
gli strigidi.
Discesero nel budello acquatico
gli occhi,
come biglie nel lago bluastro
e i corpi divennero un altro da sè,
dormirono per sempre
sigillati nelle scatole.
Ma gli occhi no,
quelli restarono prima socchiusi,
poi spalancati, e rigiravano la vita,
la palleggiavano l’un l’altro.
Anonimo uno, Anonimo due, Anonimo tre
si condivisero l’infanzia,
e poi la pubertà, le scorribande
belle e quelle meno belle,
e il mescolar fu dolce in quel non-mare
e il mescolare col cucchiaio del vento
tranciò l’eternità
in fotogrammi,
e fu altra vita,
vita supplementare ma diversa,
forse meno noiosa, nella morte.
Conta l’intensità, talvolta,
più che il tempo.

 

Raccolto metafisico

Ogni sera da una mansarda celeste
discende un braccio d’angelo.
Con la fierezza di un cavaliere arabo
lui viene a cogliere
i frutti più curiosi
dalla città alberata
e da quella di cemento.
Così i limoni, le meringhe,
i krapfen, le albicocche,
la cannabis, le torte,
sfuggono alla natura materiale,
tracimano impettiti verso l’alto,
golosi sacrifici
nel fuoco ascensionale.
Ed il divino va trafugando
i corpi ed i sapori,
per impastare metafore adatte
a carne e sangue.
Ciò serve a far comprendere
che ogni cosa esiste al di fuori di sé,
e esiste il sangue caldo prima del colpo del revolver,
ed il ricordo del defunto prima della morte.
Recita la flora batterica
nella pancia degli appartamenti,
balla lo squalo
in una tazzina di caffè.
Nuotando tra le case e gli uffici,
si resta ritti e metafisici,
finché si vomita
qualcosa di aguzzo
nell’orecchio di un altro:
ciò che ci resta dentro
fugge in alto.
Cultura mastodontica,
pachiderma psichico,
grasso mentale per gli dèi.

Mauro De Candia è nato in provincia di Bari, è laureato in Lettere Moderne e lavora come docente di Lettere in Lombardia. Tra i vari riconoscimenti ottenuti, giunge due volte finalista (nel 2017 e nel 2018) all’edizione italiana del 100 Thousand Poets for Change; finalista al Premio Letterario Città di Ravenna 2018; due volte finalista al Concorso Letterario Gioachino Belli (2018 e 2019); segnalazione nel Premio Nazionale di poesia inedita “Ossi di seppia” 2019.
Nel 2018 esordisce nel panorama letterario con la silloge “Le stanze dentro” per Edizioni Ensemble, libro che si classifica al secondo posto al Premio Nabokov 2019 e finalista al Premio Carver 2020. Nel 2021 De Candia si riaffaccia sul mercato editoriale con una seconda silloge intitolata “Sundara”.