Sfogliando i libri della collana S-confini ci siamo resi conto del pregio e della particolarità della scelta tipografica. In quanto rivista cartacea siamo molto legati all’elemento vegetale del libro, all’idea che esso respiri e contenga più di una storia ma una vita. Le chiediamo di raccontarci di questa scelta.
Tengo molto a questa domanda perché è stata una scelta a cui insieme alla mia collaboratrice, la dottoressa Sannia, ho partecipato attivamente. Volevamo fare un prodotto che quanto meno fosse di grossa riconoscibilità e apparisse piacevole alla vista, al tatto. Un oggetto artistico da tenere in libreria come fosse da collezione, un po’ come si tengono i libri dell’Adelphi in bella mostra, perché si prestano esteticamente.
Ci sono degli architetti che quando arredano le case li utilizzano quasi come fossero un oggetto d’arredamento, mostrandone quindi la matrice artistica. Noi per darci subito una caratterizzazione, volevamo fare qualcosa che mostrasse una forte identità oltre a questo pregio artistico. Fabrizio aveva da subito pensato che potesse seguire quella linea essenziale ma di impatto e quindi è nata la scelta tipografica di una carta che fosse pregiata, di una copertina stampata su un cartoncino molto ricercato e colorato, l’immagine ritagliata e incollata a mano che rivelasse anche un lavoro artigianale, una cura molto attenta e delicata. Tutto il progetto grafico è stato ideato da me e la dottoressa Sannia mentre per quanto riguarda l’immagine, inizialmente avevamo optato per una doppia immagine – di un quadro due frammenti, – spostando l’immagine in un luogo meno centrato ma poi a livello pratico, abbiamo puntato più all’essenzialità sia perché trovare i diritti d’autore dei quadri risultava complesso sia perché il lavoro manuale e artigianale richiede costi molto elevati. Proprio per questo, abbiamo avuto un momento di sosta perché non sapevamo bene come orientarci poi è stato proprio Fabrizio a farci uscire dall’impasse, facendoci conoscere un artista giapponese che aveva quadri senza diritti. Abbiamo allora trovato una soluzione, offrendo una gamma di quadri agli autori che autonomamente hanno scelto il preferito per il loro libro. In automatico ci siamo resi conto che questo meccanismo funzionava, perché siamo riusciti a ottenere un bellissimo risultato, a soddisfare la nostra sete di riconoscibilità e a semplificarci in qualche modo il lavoro non scontentando nessuno.

Durante la presentazione del libro “Nella notte il cane” di Fabrizio Coscia, libro che abbiamo letto e apprezzato moltissimo per la sua capacità comunicativa e riflessiva, ci siamo resi conto che gravitano intorno alla vostra casa editrice molti ragazzi sia come collaboratori che come lettori: collaborare con varie generazioni, metterle a confronto, lasciarle comunicare cosa significa per voi? Che consiglio darebbe ai giovani che vogliono affacciarsi a questo mondo?
In casa editrice siamo in otto e si interfacciano generazioni diverse. Posso dire, con molto entusiasmo che assumere i giovani, soprattutto appassionati, mi dà molta felicità perché i ragazzi portano energia, nuove idee, nuovo coraggio – casomai comincia a venire meno – e una ventata di innovazione. Li ritengo, quindi, i benvenuti perché infondono una vitalità che a volte deve essere rinnovata. Per quanto riguarda i consigli che darei ai giovani che desiderano aprire una casa editrice, affacciarsi a questo mondo, posso dire con convinzione che il mestiere dell’editore è un mestiere bellissimo ma è un mestiere che oggettivamente non dà fin da subito grosse soddisfazioni economiche. Per guadagnare, quindi, ci vuole tempo. Si deve iniziare quasi con l’idea di interessarsi a un hobby eppure è un mestiere che se fatto bene può portare grandi soddisfazioni, uniche. Vedere tutto il processo, seguirlo da vicino e nel dettaglio, partire da un’idea che a mano a mano vedi concretizzare, donare qualcosa agli altri e scoprire poi che possa essere apprezzata ha un valore insostituibile. Mi rendo conto che attualmente per un ragazzo fondare una casa editrice è abbastanza complicato ma guardandomi intorno, vedo degli esempi fantastici. Ho da poco scoperto al salone del libro di Milano (e me ne vergogno) la realtà editoriale di Scampia, la casa editrice Marotta e Cafiero che ha fatto dei lavori sublimi. Prima di tutto un catalogo folto e incredibile, internazionale: King, McEwan e in più libri curati graficamente in modo incredibile. Sono davvero unici e li reputo un miracolo. Secondo me dovrebbero davvero essere pubblicizzati ogni giorno per il coraggio, l’ardire e la bellezza della loro attività. Ovviamente un ragazzo che si affaccia in questo mondo deve essere consapevole della bellezza di questo lavoro e delle grandi soddisfazioni che comporta ma deve anche entrare nell’ottica che ci sono dei tempi e dei sacrifici, gratificazioni economiche a lungo termine. Lavorare in una casa editrice significa esser consapevoli di queste tempistiche lunghe, di queste difficoltà ma ad un giovane, lo consiglierei. Agli editori di oggi servono due cose: saper stare sul web perché in questo momento di divulgazione e comunicazione generale, riuscire a stare sul pezzo è necessario e la voglia di imparare. È essenziale che un giovane, quando arriva in casa editrice, sia disposto a fare tutto perché tutto può servire (non in un’ottica di svalutazione ma di insegnamento). Anche se è laureato deve capire che ci sono dinamiche da imparare e acquisire, non deve sentirsi in difetto se si trova ad assumere mansioni apparentemente semplici perché in esse si nasconde un insegnamento essenziale. Il titolo non prepara ufficialmente al lavoro (purtroppo) ma è la pratica accorta, il
contatto continuo e diretto con la vera realtà editoriale a fare la differenza. L’atteggiamento deve essere aperto. Ai tempi in cui ho iniziato, ho fatto di tutto. Sono entrato in questa casa editrice prima di mio nonno poi di mio padre come fattorino e col tempo tutte quelle nozioni pratiche e tecniche apprese mi sono servite molto perché le ho toccate con mano. Mi è davvero servito tutto, anche l’apparentemente semplice capire come parte un libro alla posta. Non ho mai avuto un atteggiamento distaccato né pensato che mi stessero facendo fare qualcosa che non mi spettasse, che non fosse abbastanza. Quello che è importante alla fine in una casa editrice che produce cultura e quindi poco reddito è essere bravissimi dal punto di vista fiscale, se sei solido da quel punto di vista e sai ovviare ad ogni increspatura perché hai acquisito le giuste conoscenze, impari anche a resistere. Quindi diviene utile anche appunto spedire quel pacco di libri alla posta, imparare a farlo, capirne il funzionamento.

Lei ha citato il Book Pride, festival dell’editoria indipendente tenutosi a Milano. Che rapporto intercorre con le altre realtà indipendenti e cosa ha significato per voi partecipare?
Il Book Pride per noi è stato un debutto, quindi sotto questo punto di vista molto divertente. Siamo andati là senza pretese o preparazione e ci siamo accorti di quando sia vasto quel mondo e di come fossimo impreparati dinnanzi a tale vastità ed eterogeneità. Ma proprio per questo è stata un’esperienza importantissima perché ci siamo accorti di quante cose potessimo fare in più e meglio. Intorno anche semplicemente al nostro stand si annidavano tante possibilità che ci permetteranno in futuro di capire come muoverci. Ogni più piccola cosa utile per proporsi ci ha permesso di imparare: l’immagine dietro lo stand, la diffusione dei segnalibri che comunque attirano le persone e permettono loro di interagire. Abbiamo notato tante sottigliezze e nonostante fosse un debutto siamo rimasti affascinati. Dal punto di vista di conoscenza non solo dell’editoria indipendente ma delle persone che la compongono è stata ricchissima. Un’esperienza che ha arricchito tutto il mio staff. L’iniziativa mi è piaciuta molto perché il Book Pride ha una dimensione umana. Il salone di Torino, ad esempio, mi ha sempre spaventato perché era troppo dispersivo, era mastodontico e dava la sensazione di entrare in una libreria in cui in risalto ci sono principalmente i libri della grande editoria, le novità più omologate. Le persone sono immerse in qualcosa di così grosso che appaiono disorientate, disperse e sono inevitabilmente portate a guardare i grandi colossi, le grandi firme, le realtà più conosciute. Questa esperienza, invece, è molto più raccolta, mancano i grandi editori, c’era solo Adelphi che a quanto pare [sorride] si considera piccolo editore. Questa esperienza è stata così bella perché
ci ha permesso di vedere una realtà di persone con una frenesia e un attaccamento incredibile che propongono libri stupendi, unici: alcuni fanno dei lavori così intensi sui loro libri da renderle delle piccole opere d’arte. Quest’editoria da funamboli ci pone a contatto con la possibilità di fare un’editoria di cultura mossa da una sincera e intramontabile passione. Si fa editoria, quindi, non per diventare ricchi, non per strafare ma per interesse genuino.

Quali altre realtà indipendenti ha incontrato e scoperto?
C’era un forte fermento editoriale e culturale. A parte Marotta e Cafiero che cito nuovamente, ho ritrovato molte realtà che amo particolarmente anche in qualità di avido lettore. Cito ad esempio Quodlibet, una casa editrice che a mio avviso produce una quantità di cultura spropositata, libri dal punto di vista grafico molto
belli ed elegantissimi. Poi c’è questa casa editrice che ho scoperto sul posto che è Tlon, non solo dal punto di vista grafico ma di contenuto edita, infatti, libri molto particolari, si muove su temi attuali, possibile anche grazie al lavoro pazzesco e notevolissimo che fanno sui social.

Chiediamo allora se c’è speranza per l’editoria, se questo festival gli ha dato speranza:
La speranza c’è perché esistono ancora gli editori e i sognatori, perché esiste ancora la cultura ed esistono bravissimi scrittori sia piccoli che grandi. La verità è che c’è tutto ma il vero problema, l’anello debole o mancante è la scuola. Lo dico, vedendo le mie figlie. Ho due figlie al liceo, una al Genovesi e una all’Umberto. Vedo nel loro esempio una mancanza di stimolazione alla lettura e alla scrittura. Fanno pochi temi, pochi riassunti, leggono poco e questo li allontana dalla curiosità del libro. Se non sei abituato a leggere, sei più portato a stancarti, se poi non ti educano nemmeno, diviene un’impresa titanica. C’è da aggiungere che mentre noi non avevamo l’alternativa dei cellulari, loro invece hanno questa distrazione martellante. Allora bisogna agire in tal senso, creare un’alternativa massiccia, un’altra possibilità che li spinga a ricercare il libro, a produrre curiosità. Se manca anche questo innesco, ci si avvicina progressivamente alla fine. La scuola arranca, i ragazzi che leggono lo fanno per loro interesse, per un ghiribizzo loro (e per fortuna c’è questa possibilità) non perché siano invogliati realmente. È, infatti, carente quella struttura che dovrebbe invece stimolarli e accompagnarli. Questa mancanza di curiosità verso la lettura manca poi, di riflesso, anche nella scrittura ed è un peccato.

Se dovesse allora consigliare da avido lettore delle letture, quali consiglierebbe? Sarebbe interessante cogliere dalle sue parole non soltanto un invito alla lettura, una stimolazione alla curiosità ma un consiglio pratico che sommi la sua passione di editore a quella di lettore.
Consiglierei, sarebbe sciocco non dirlo, tutti e tre i libri della nostra collana S-confini perché sono libri che mostrano ampiamente quella pluralità, l’importanza di non incasellarsi necessariamente in un canone.
Consiglio da amante della letteratura più che dei libri, degli scrittori che ammiro particolarmente: Donatella di Pietrantonio, Mario Covacich che ha scritto “A nome tuo” da cui è stato tratto il film di Valeria Golino “Miele”, parla di un tema importante come l’eutanasia. Amo molto anche autori che potrei considerare leggeri ma non lo sono: Sylvain Tesson che ha scritto per la Sellerio, un libro molto spiritoso e a mio avviso geniale intitolato “Beresina”, un libro divertente in cui lui guida un sidecar con affianco un russo quasi perennemente ubriaco e ripercorre tutto il percorso che fece Napoleone quando cominciò a ritirarsi dalla Russia. È un libro di un’intelligenza e un’ironia inaudita che trascina con sé anche una punta di follia.
Sempre per la Sellerio mi viene in mente un libro dello scrittore africano Mia Couto, “L’altro lato del mondo” e continuo con Annie Ernaux, autrice notevole che ha pubblicato quasi tutti i suoi libri con L’orma, il primo Emmanuel Carrère che ha scritto “La settimana bianca” e “L’avversario”, libri per me insuperabili rispetto a tutto il resto che ha scritto. Ho amato molto Javier Marías quando ha scritto “Un cuore così bianco” e “Le fedeltà invisibili” di Delphine De Vigan. Ovviamente non sto qui a dire i classici perché potremmo non finirla più.

Prima di porre l’ultimo quesito, ci intratteniamo a parlare ancora di libri, ascoltiamo con veemenza ogni suggerimento, ogni titolo che a mano a mano l’editore ricorda e vuole consigliarci, apprezzando l’impellenza sincera di renderci partecipi, di farci conoscere nuovi scrittori e testi. Questa voglia di apprendimento e questa volontà di condivisione ci cinge come un abbraccio, ci stringe abilmente in un intreccio di pensieri, parole e ricordi appassionati. Ci sentiamo trasportati nelle sue letture, compresi e colti nella nostra passione comune prima di giungere all’ultimo interrogativo e salutarci:

Avete uscite in programma, presentazioni?
Con S-confini i prossimi libri in uscita dovrebbero essere quello di Carmen Pellegrino, speriamo Paolo di Paolo, Carmen Pretto e poi stiamo assediando benevolmente Antonio Pascale che ha scritto un libro per Einaudi al nome “La foglia di fico”, di una potenza straordinaria. Gli abbiamo mandato i libri della nostra collana e gli sono piaciuti, non ha detto di no alla nostra proposta quindi c’è sicuramente una possibilità. Per quanto riguarda le presentazioni c’è ne è una a brevissimo il 29 aprile alle ore 18.30 a Villa Campolieto ad Ercolano per il libro “Nella notte il cane” di Fabrizio Coscia. Vi esorto ad esserci.

Abbiamo riscontrato negli incontri di questi mesi, un filo rosso che lega le diverse realtà editoriali indipendenti, una necessità di equilibrio ed armonia che in una dinamica di insieme, in un’ottica di comunanza vuole disfare il blocco cementificato delle grandi realtà editoriali, vuole scalfire l’era granitica del capitalismo, mostrando come possa esser fatta editoria di cultura, possa esser data voce alla pluralità umana che sconfina inevitabilmente in storie, racconti, esperienze, capacità di immaginazione e piacere della lettura. La storia di questa casa editrice coincide con quella di una famiglia che ha da sempre investito anche in termini emotivi nella pratica dello stampar libri, accordandosi alla passione di donare all’altro un oggetto che rechi in sé una traccia ibrida, unica, umana. È la storia di generazioni che si alternano, comunicano tra loro e creano, preservando un attaccamento sincero.: negli occhi di Alfredo De Dominicis notiamo una fiammella che arde, un’affezione al libro dalla forma al contenuto, una ricerca che supera la controparte materialistica e consumistica, propria in larga parte del mercato librario ed editoriale e si dedica con cura e devozione all’arte del libro, alla sua scoperta e ricerca in continua evoluzione.
Andiamo via, quindi, con le nostre copie di libri della collana S-confini tra le mani, copie che l’editore ci ha offerto spontaneamente, con affetto, animando la nostra curiosità, intessendo quella rete eterogenea e necessaria di contatti e incontri di cui abbiamo parlato per tutta l’intervista. Andiamo via, inebriati dall’atmosfera storica del luogo in cui venivano stampate le copie de “Il Giornale” di Benedetto Croce, affascinati dalla passione inestirpabile, l’accoglienza sincera che muove questa
famiglia e la sua casa editrice, realtà mescolate insieme, inscindibili.

Sabrina Cerino