I nomi delle strade
Le strade sono
tutte di Mazzini, di Garibaldi,
son dei papi,
di quelli che scrivono,
che dan dei comandi, che fan la guerra.
E mai che ti capiti di vedere
via di uno che faceva i berretti
via di uno che stava sotto un ciliegio
via di uno che non ha fatto niente
perché andava a spasso
sopra una cavalla.
E pensare che il mondo
è fatto di gente come me
che mangia il radicchio
alla finestra
contenta di stare, d’estate,
a piedi nudi.

Con questa poesia di Nino Pedretti che alla fine dell’intervista, Giulia legge, a voce alta, nello spazio antistante il teatro Bellini, accompagniamo il lettore nel dialogo incontro con la personalità multiforme, dall’indole curiosa di questa indefinibile e appassionata libraia che ci ha accolto e fatto addentrare nel giardino delle sue parole, attraverso un racconto fitto e screziato in grado di sovvertire con dolcezza e disinvoltura alcuni crismi e schemi apparentemente immutabili. Mentre la ascoltiamo, il pensiero si posa su un’immagine inesauribile: vivere a contatto con i libri vuol dire dirigersi oltre ogni definizione e muoversi tra i sentieri della cultura, in quel mondo di letture ad alta voce e poesie lette per sé e per gli altri, dove vengono creati mondi su misura e realtà mai statiche e dove si costruisce, decostruisce e costruisce ancora la figura di Giulia e la nostra intervista.
Prima di addentrarci materialmente nel suo racconto, ci posizioniamo nella libreria. Giulia ci accoglie con un pacco di libri appena stampati del poeta Hernández, libri editi da “Edizioni dell’asino” che lei sfoglia e risfoglia. Ne legge alcuni stralci, rendendoci partecipi del suo sguardo sognante e di quel suono delle parole che prima di avere un significato, attraversano l’aria, giungono all’orecchio e fanno vibrare i corpi assorti. Solo così l’ascolto divenuto attivo, si erge al di fuori della contemplazione e diviene dialogo: Ninna nanna della cipolla di Hernández , la Szymborska  anche aveva scritto una famosissima poesia sulla cipolla… Mi hai tirato un limone… pirotecnici portici di Zagara che glorificheranno gli usignoli… Mentre legge trasognata e incuriosita, a voce alta ci ingloba nel suo momento e ascoltandola, non possiamo fare altro che dirle:
-Leggi molto bene.
-Ah ma non lo sai? Io faccio i laboratori di educazione alla lettura..
-No, infatti, non lo so per questo ti devo fare tante domande. Quando ti chiamano libraia tu sorridi, quindi, non posso fare altro che chiederti di raccontarti.
-Sì, sorrido perché questa non è una libreria.
-La prima domanda è proprio raccontati.
-Ma io? Proprio così? Proprio a me?
-Sì, proprio tu. L’intervista è sullo spazio libreria ma è anche su di te.
-Su di me? La gente perché dovrebbe interessarsi a me?
-Non ti preoccupare, lo farà. Iniziamo?
-Iniziamo.

Racconta il tuo percorso: sei laureata in storia giusto?
Sì, sono laureata in storia con indirizzo in critica d’arte. Infatti, ho cominciato come storica della fotografia, lavorando per molti anni all’Archivio fotografico Parisio, un archivio storico che si trova al porticato di San Francesco di Paola proprio sotto ai colonnati. Già dal 1926, quando era lo studio di Giulio Parisio, importantissimo fotografo anche del movimento futurista, questo archivio ebbe un grande ruolo poi, purtroppo, come tutte le cose che attengono alla cultura in questa città, finì. Fosse stato a Parigi sarebbe stato un posto super figo, finanziato dallo stato. Noi abbiamo resistito un po’, ci abbiamo provato ma l’archivio ha dovuto chiudere e con lui quell’enorme patrimonio di immagini e di storia della città.
Quello era il mio lavoro ma ho da sempre avuto anche rapporti con l’associazione “A voce alta” di Marinella Pomarici. Ho cominciato con l’associazione subito dopo la laurea. Una volta tornata da Torino, città in cui ho vissuto brevemente, ho iniziato ad occuparmi della segreteria organizzativa degli eventi. A quei tempi, gli eventi erano molto pochi perché l’associazione era appena nata ma facevamo cose molto belle, molto appassionate. Abbiamo avuto contatti con Saviano quando Saviano ancora non aveva la scorta e con lui abbiamo organizzato molte cose, inoltre, lavoravamo assiduamente con i bambini dei Quartieri Spagnoli e di Materdei. Nello specifico, io svolgevo attività con i bambini e facevo già allora dei laboratori di lettura o meglio di accompagnamento alla lettura, raccontavo storie. A quei tempi i bambini che seguivo erano più piccoli, appartenevano alla scuola d’infanzia o ai primi anni delle elementari e passavo il tempo con loro, raccontando, appunto, storie. Ho imparato tanto da questa esperienza perché uno dei miei primi lavori è stato con una cooperativa dei Quartieri, presso Piazzetta Mondragone, una cooperativa sociale in cui gestivo questi laboratori di lettura ed ero a contatto con realtà particolari. Credevo, ingenuamente, che raccontare favole ai bambini fosse facile e invece, mi sono resa conto da subito che non lo era affatto. In primo luogo perché c’è una resistenza problematica, questi bambini conoscono o conoscevano le favole della Disney, quindi risultava complicato entrare in un mondo già strutturato e molto visivo. D’altronde non sono pochi gli scrittori che hanno detto che la Disney ha distrutto l’immaginazione dei bambini. Infatti, i bambini immaginano tutti i personaggi come dei pupazzetti con occhi grandi e tondi, poco reali e molto edulcorati. I luoghi e la fisicità dei protagonisti è giustamente fittizia, non ha nulla di realistico. Motivo per cui feci questo laboratorio sulle fiabe Disney in versione originale. Chiedevo ai bambini: volete sapere qual è la versione vera di Perrault o dei fratelli Grimm? La cosa che mi sconvolse, mi direzionò nuovamente (e questo mi porta a parlare del secondo motivo per cui è difficile raccontare fiabe o favole ai bambini, soprattutto in quei luoghi) è l’aver scoperto che non tutti i bambini sono abituati a leggere o ad ascoltare queste storie. Davo per scontato che a quell’età ogni bambino o ragazzino di sei sette otto anni avesse conosciuto quelle fiabe, che ognuno di loro avesse avuto un nonno o un genitore che le leggesse e le raccontasse e invece non era così. Proprio mentre ero in quella cooperativa, un bambino si alzò e mi disse in dialetto: “a me mia nonna mi
picchia soltanto” e così, d’improvviso, compresi. C’era un’altra realtà che non si era nutrita di fiabe e favole ma di altre cose, cose che non avevano nulla a che fare con la lettura o l’immaginazione. Allora ho
continuato non dando per scontata questa rivelazione, proseguendo con i ragazzi attraverso l’associazione.
Per un po’ ho interrotto fino a riprendere completamente i contatti con loro quando l’archivio fotografico ha chiuso. A quel punto era il 2016 e c’era la possibilità di avere questo spazio che prima era di Marotta e
Cafiero e che si era liberato. Contemporaneamente stava iniziando un rapporto tra il teatro Bellini e la casa editrice Laterza e questa triangolazione perfetta ha portato poi a inglobare nel progetto anche
l’associazione A voce alta che nel mentre, intratteneva già dei rapporti con Laterza poiché entrambe fanno parte dei presidi del libro e avevano già lavorato insieme, si conoscevano bene, Marinella Pomarici e Giuseppe Laterza erano amici.
Io credo che soprattutto in un contesto come il nostro, anche se in realtà questa è una credenza che ho in assoluto, senza una rete, senza tessere contatti e incontri, non funziona nulla, la mancanza della rete rende fragili e può condurre alla dissolvenza.

Questa è una cosa che dicono tutte le persone che abbiamo intervistato. L’idea che senza la possibilità di fare rete non esistono le condizioni di esistenza, non si creino poi nemmeno i presupposti di sopravvivenza.
Sì, perché noi dall’alto non abbiamo uno Stato, delle amministrazioni che favoriscono la cultura ma di contro abbiamo delle bellissime teste e realtà private che solo facendo rete permettono di continuare a esistere o addirittura danno la possibilità di nascere e progredire, tessendo delle reti funzionanti e forti. Quante realtà veramente isolate funzionano in maniera proficua, consistente? Penso sia evidente, spulciando in giro, questa necessità della rete e dell’incontro, questa impellenza della cultura di legarsi e comunicare. La direzione di individualità non porta a nulla di buono. Noi siamo costretti a fare finta di nulla per andare avanti, a proseguire nel nostro operato nonostante tutto, ponendoci quindi, in una direzione diametralmente opposta e considerando il fare rete un caposaldo.

La presenza di questa rete si evince anche dalla congiuntura tra le varie realtà, l’associazione, lo spazio libreria, il bar, il sottopalco con i suoi eventi e il teatro. Ci sono spazi diversi in uno spazi  soltanto che è quello del teatro, come funziona la gestione?
Ci sono tanti spazi ma ci sono appunto anche tante teste e tante realtà. Il teatro a parte la sua normale attività, ospita la Factory quindi l’Accademia dei grandi, dei piccoli, ha un bar che quest’anno non ha fatto eventi ma prima della pandemia faceva molte cose, poi ci siamo noi più altre attività collaterali. Questo teatro è uno spazio che accoglie al di là del suo cartellone, come dicevo, molte teste e realtà. Abbiamo tanti spazi e siamo anche tanti a dividerci. È bello perché è necessario, come dicevo, fare rete ma spesso anche difficile.

Come riuscite, infatti, a gestire tutte queste realtà e spazi? A coordinarvi e coesistere?
Il teatro ha la mentalità che da un secondo all’altro tutto si può fare. Con la magia del teatro,
miracolosamente, tutto appare e scompare. Grazie a questa dinamica magica e creativa tutto è possibile, ogni cosa trova il suo posto, trova il modo di essere ed esistere e si armonizza. La magia del teatro ci direziona e unisce, in qualche modo rende possibile l’azione nonostante le evidenti difficoltà. Il punto è che noi qui facciamo di tutto anche cose di cui prima non avevamo conoscenza e competenza e solo facendo abbiamo imparato, stiamo imparando. Ogni giorno scopro e imparo cose nuove, diverse. Il nostro carattere identitario è l’essere ibridi. Ci piacerebbe fare tantissime cose e l’associazione ha molte braccia e menti. C’è chi come me si occupa più dei ragazzi delle scuole, chi inventa rassegne o si concentra più sugli eventi e poi c’è lo spazio libreria di cui ci occupiamo tutti. Il nostro operato vuole rendere tutti partecipi, avvicinare le persone.
Per esempio nella prossima stagione avremo Fuoriclassico, una rassegna che si occupa dei temi dell’antico rivisitati in chiave moderna. L’idea essenziale per noi è anche quella di attirare pubblici diversi e mettere a disposizione la cultura.

Come ti relazioni con gli altri collaboratori e partecipanti attivi? Come nasce lo spazio libreria?
Questa realtà è tutto e niente allo stesso tempo, una struttura muta forma che nasce a un certo punto perché l’associazione stava crescendo e necessitava di uno spazio fisico.
Per undici anni “A voce alta” aveva fatto il festival degli incontri di lettura, un festival bellissimo di tre quattro giorni in cui ogni anno c’era un tema diverso su cui attori e scrittori erano invitati a parlare, a raccontare e leggere. Partecipavano anche le scuole tramite una rassegna che si chiamava “La pagina più amata”. I ragazzi si preparavano e partecipavano a una bellissima mattinata dove leggevano, facevano performance di lettura a voce alta che ricordo con affetto perché erano davvero molto belle. Poi ad un certo punto anche quello è finito perché purtroppo c’era assenza o carenza di fondi, in più il programma si era infittito attraverso una serie di appuntamenti e reti, divenendo molto consistente. Dunque, ecco che tornava l’urgenza per l’associazione di avere una sede. Contemporaneamente si era creata questa congiuntura ancora attiva oggi, una sinergia che ha unito persone, eventi e spazi. Così è nata lo spazio libreria che all’inizio non aveva un assetto ma piuttosto era un viaggio verso l’ignoto, Ci siamo armati senza alcuna conoscenza ma solo con una grande voglia di fare e una forte passione. Volevamo partire con questo progetto senza sapere effettivamente come agire e siamo abbiamo iniziato così, semplicemente unendoci e provando. C’era Marcella Esposito che avevamo ereditato da Marotta e Cafiero, Antonella Cristiani, redattrice ufficiale di Cronopio e poi editor e collaboratrice da anni di Dante e Descartes e poi tutti noi che ci stavamo, in qualche modo, reinventando e avevamo esperienza nell’organizzazione degli eventi e delle presentazioni ma non eravamo librai veri e propri. Ci apparteneva di sicuro, una grande esperienza personale di lettori, eravamo e siamo tutti lettori forti ma di contro questa stanza di quindici metri quadri non ha i caratteri di una libreria.  Come fa una stanza del genere a essere una libreria? Da un lato eravamo facilitati dal grande cappello di
Laterza che occupava una parte consistente di spazio nella libreria ma per il resto come potevamo fare? Da subito abbiamo pensato di escludere le grandi case editrici che sono subissate di titoli e novità, difficili da seguire, difficili da immettere in uno spazio come questo. Come avremmo mai potuto far entrare Einaudi qui dentro? Abbiamo deciso che volevamo fare un lavoro di tipo diverso, più indipendente e di progetto inserendo nel nostro piccolo spazio case editrici come L’orma, E\O, Minimum fax, Marcos y Marcos (che avevamo e ora non abbiamo più), poi quelle napoletane come Cronopio, Intra Moenia, Colonnese, Homo Scrivens e delle altre piccole chicche che sono entrate col tempo, come ad esempio RueBallu che amo molto, Wojtek, Cliquot. Solo così, pensando di dare spazio reale e completo oltre che attenzione concreta, puoi mostrare tutto o in gran parte il catalogo di una casa editrice, altrimenti non ha senso. Certo, questo è chiaro, noi non saremo mai una libreria perché già il fatto di stare in una piccola stanza dentro al foyer del teatro, chiuso per la maggior parte della giornata, chiuso per tutta l’estate, difficilmente visibile dall’esterno perché non ha una vetrina fronte strada, ci colloca in una posizione che non ha nulla di commerciale. Questa libreria si fonda sostanzialmente e quasi totalmente sul lavoro dell’associazione, di chi lavora per l’associazione.
Guadagna, quindi, per altre vie e la libreria si autosostiene, certi mesi di più, altri di meno ma se non ci
fossero presentazioni, avrebbe enormi difficoltà a esistere. Per noi le presentazioni sono fondamentali, questo è il nostro modo di proporre cultura, di fare rete. La maggior parte delle presentazioni ci arrivano ma noi teniamo vive le nostre preferenze, le nostre scelte hanno di base un interesse sincero anche se indubbiamente, per far parte del gioco, dobbiamo guardare anche il lato economico e commerciale. Quel di cui siamo contenti e soddisfatti riguarda la rete che si è creata e alimentata nel corso del tempo. Una rete che funziona e permette di sostentarci, di conoscere, di essere conosciuti, di scoprire. Ci piace quando le voci si mettono insieme e fanno coro. Il mondo editoriale è una continua scoperta, potresti stare lì, infinitamente e scoprire sempre nuove iniziative, nuovi titoli, nuovi mondi. Questa è una cosa che faccio con la letteratura per ragazzi, indago, studio, mi informo. Facendo i corsi per ragazzi di educazione alla lettura ho sempre bisogno di tirare fuori nuovi titoli, nuovo materiale da proporre e essere aggiornata sia per me che per loro. È importante farli leggere, stimolarli, capirli. Le cose sono cambiate perché prima i ragazzi avevano indubbiamente meno distrazioni ma anche se la loro epoca è più digitalizzata, non dobbiamo vedere i social o il mondo digitale come un nemico. Grazie a loro scopro tante cose. Ad esempio, moltissimi ragazzi e non parlano di libri su TikTok. Si sta creando anche intorno ai social una rete molto forte e in questo io non ci vedo nulla di male, anzi. Utilizzare i social per avvicinare i giovani alla lettura, per permettere loro di dedicarsi e lasciarsi incuriosire attraverso video e consigli è un’ottima occasione.
Secondo me bisogna utilizzare gli strumenti che utilizzano loro così da avvicinarli, appassionarli e
comprenderli. Non ha senso vedere i social come uno strumento negativo, adoperare una visione anticata e pregiudizievole, la stessa che spingeva ad i nostri nonni a vedere la televisione come lo strumento del diavolo. Credo piuttosto che sia necessario permettere a questi spazi di essere riempiti di contenuti che possano avere un senso. Molte persone, nonostante i cambiamenti reali, continuano a proporre ai ragazzi la lettura di “Cuore” e poi si chiedono perché i ragazzi non siano interessati alla lettura. Basta con queste letture che fanno parte di una realtà ormai superata, passata. Leggere al giorno d’oggi Rodari (autore che amo moltissimo ma distante oramai), proponendo ancora “Favole al telefono” a ragazzi che non conoscono nemmeno l’apparecchio telefonico di un tempo, che senso ha?

Tu che letture proporresti ai ragazzi?
Quest’anno ho avuto sei classi con cui ho adoperato un percorso specifico che mi permettesse di avere un duplice scopo: sia quello di insegnare ai ragazzi ad avere cura delle parole della loro lingua, sia insegnare a pensare e permettere loro di imparare che non sono delle monadi all’interno della realtà che vivono ma che piuttosto, come diceva l’antropologo Geertz, la cultura è una rete di significati.
I ragazzi devono imparare a collegare cose che a prima vista non sembrano collegate e che attraverso le storie, lo divengono, Queste storie devono esser funzionali per fargli comprendere che, appunto, non siamo monadi ma siamo tutti collegati nel tempo e nello spazio.
Le storie, attraverso la passione che ci lega ad esse, sono importanti per capire e far capire quanto la cultura sia fondamentale. È solo questa la strada effettiva da percorrere per avvicinare i giovani alla lettura e più in generale al sapere, alla passione e quindi alla cultura. Se metti ai giovani un libro in mano ma non li coinvolgi o non li educhi ad essere coinvolti, magari attiri anche la loro attenzione ma non li catturi mai completamente, li perdi e disperdi nella miriade di distrazioni presenti e spesso incontenibili. Devono entrare consapevoli, devono essere coscienti che in quel mondo nuovo di storie a cui si stanno accostando, possono trovare qualcosa che per loro è una risposta. C’è sicuramente un libro in questo momento che gli sta parlando e che può rispondere alle domande incessanti che si stanno ponendo nella mente. Un libro che sta raccontando di quegli stessi crucci e problemi che loro vivono e che non sanno esprimere. Magari il protagonista della storia che rappresenta le loro turbe o paure è a forma di volpe o vive nel 1850 ma esiste e gli parla. Se loro capiscono che non sono degli esseri isolati nello spazio e nel tempo e comprendono che la storia che stanno leggendo o ascoltando è una rete che risponde alle domande che si pongono, allora siamo davanti al primo passo per imparare la passione per i libri, per stimolarli e accompagnarli nella lettura.
Inevitabilmente, diventerà più semplice scoprire il piacere di utilizzare le parole, di conoscerne tante. Nei
laboratori che conduco, facciamo molti giochi con le parole all’inizio del percorso di educazione alla lettura, proprio perché quello è il loro strumento. È necessario utilizzare questo strumento proprio partendo dai libri, insegnando ad usare le parole come un mezzo imprescindibile. Motivo per cui inizio sempre con i dieci diritti del lettore di Pennac, perché voglio metterli a loro agio, voglio desacralizzare l’atto della lettura. Il primo diritto? Non leggere. E così via. Essere consapevoli che se si vuole, si possono saltare le parti noiose o ridondanti e continuare a leggere lo stesso, per giungere al nocciolo di ciò che si ricerca.
Io penso che nella vita, sempre nel rispetto degli altri, tutto vale, non ci sono gerarchie. In un’attività così isolata e personale come la lettura deve valere tutto. L’idea di sacralizzare la lettura è un problema, crea questo disagio e distacco nei ragazzi. Invece io dico: fate quello che vi pare con i libri. Quando sento dare imposizioni su come maneggiare e approcciare ai libri, quando sento dire di non fare le orecchiette e di trattarli come oggetti sacri o reliquie, non sono d’accordo. Se i ragazzi non vogliono sporcare o vivere anche materialmente il libro, va bene, se è una loro scelta, va bene ma se al contrario, si vuole fare, se si ha voglia di percepire il libro per quello che è e cioè un oggetto necessario, utile, da vivere completamente, devono sentirsi liberi di poterlo fare perché, appunto, il libro non è un oggetto sacro ma deve stare nelle mani, deve essere toccato, portato in bagno, al mare, ovunque. Non importa che si stropicci perché la lettura fa parte della vita e sacralizzarla è un problema.

L’idea che il libro sia sacro è infatti un retaggio che stanchi, ci trasciniamo dietro.
Questo è un problema della scuola che non è aggiornata. Propone ancora libri come “Cuore” o propina ancora Calvino. Io amo Calvino, l’ho letto anche da piccola e continuo ad amarlo ma la lettura che feci, corrisponde a tanto tempo fa, a un periodo passato. Quello che io tento di fare è di lavorare sulle parole, di scegliere libri che affrontano il tema delle parole e quindi del linguaggio.
Per fortuna la letteratura per l’infanzia e per ragazzi in questo è molto ferrata. Leggo molto, ultimamente, questo tipo di letteratura, la studio. Di solito inizio con questo libro che si chiama “La grammatica è una canzone dolce” di Erik Orsenna che racconta la storia di due protagonisti sui dieci, undici anni con i genitori separati. Questi due bambini prendono la nave per andare dall’uno e dell’altro ma c’è una tempesta e naufragano, finiscono su una spiaggia e non riescono più a parlare, sono privati della facoltà della parola. Si rendono conto, però, che l’isola su cui sono arrivati è un’isola magica in cui le parole si comprano e si vendono al mercato, hanno una loro città. C’è il municipio dove gli articoli si sposano con i nomi: le parole sono vive. Noi facciamo sempre questo gioco “le parole da salvare, le parole da gettare”, così cominciano a lavorare sul perché si possa scegliere una parola piuttosto che un’altra, sul significato, sul suono e poi capiscono che giocare con le parole significa viverle. Per esempio, leggo sempre “Il Lonfo” e loro sono contenti. Questa poesia giocosa di Fosco Maraini, che tra l’altro molti bambini e ragazzini conoscono perché c’era una bambina sui social (ecco che ritornano e che servono) che con il papà leggeva “il Lonfo”, li travolge e coinvolge. Quel che mi colpisce è che tramite i social loro erano a conoscenza di questa poesia, ci sono giunti tramite un’altra strada che li ha messi a loro agio e gli ha permesso di scoprire e conoscere la metasemantica. A loro, non dico mai che stanno leggendo una poesia metasemantica, così non li spavento con questo parolone difficile ma è ciò che fanno, pur non sapendo effettivamente di cosa si tratta. I ragazzi sono immersi e trascinati ugualmente in questo mondo e così scoprono che quelle parole che non hanno alcun senso, invece, custodiscono un suono all’orecchio da cui si lasciano attrarre e trasportare.
Poi facciamo altri giochi e cominciamo a leggere libri su temi più precisi e a quel punto esistono tantissimi libri, variegati. Un libro che funziona molto con i ragazzi di questa scuola è “Lucignolo” di Rosario Esposito La Rossa della Scugnizzeria. Il protagonista della storia è un Lucignolo di Scampia, attivo nei giorni nostri e con un padre al 41 bis. La scuola con cui collaboro è a Gianturco ed è intessuta di situazioni familiari di questo tipo. I ragazzi in questa storia si rivedono e ritrovano e se anche non sono coinvolti in prima persona nella narrazione, conoscono storie di questo genere perché i loro stessi vicini o compagni di banco hanno quel tipo di vissuto, quel tipo di storia. Un altro libro che funziona molto è “Giacomo è un signor bambino” di Paolo Di Paolo, un libro sull’infanzia di Giacomo Leopardi. Anche in questa storia prevale l’idea di entrare dall’altra strada. Studiare Leopardi sempre alla stessa maniera, sottolineandone i tratti letterari, le nozioni biografiche da imparare a memoria diviene noioso e meccanico per un ragazzino. Vivere invece Leopardi come un essere umano con la propria infanzia, il proprio vissuto, coinvolge e rivoluziona.
Quindi, innanzitutto, tendo a scegliere libri che hanno per protagonista i bambini o i ragazzini per permettere un’identificazione e poi lavorare sui temi. Soltanto così loro capiscono che la lettura è ovunque.

Sarebbe bello partecipare a uno di questi laboratori che curi e crei, anche perché entrare in contatto con bambini e ragazzi non da insegnante ma attraverso un’altra strada è un approccio molto stimolante.
Facciamolo insieme l’anno prossimo. Includiamo Mosse di Seppia in questa equazione. Trovo stimolante anche io questa strada alternativa ed è stata una scelta che ho compiuto con convinzione. Quando mi sono iscritta all’università, scelsi di non inserire tutti gli esami propedeutici all’insegnamento e di questa decisione, non mi sono mai pentita. Sono molto felice di andare a scuola senza avere tutte quelle beghe burocratiche così da poter dirigere totalmente la mia attenzione e la loro verso giochi, temi e letture sempre nuove, inventive.
Per questo, dare importanza al suono delle parole è un gioco che spesso faccio con i ragazzi e produce dei risultati bellissimi. Non è solo quel che fai a stimolare e gratificare ma quello che ricevi. I bambini e i ragazzi offrono delle risposte pazzesche, creano in maniera allucinante ed è così che quel che io vorrei si realizza. Vorrei, appunto, che abbracciassero tutte le possibilità della parola e quando questo diviene realtà per me tutto si illumina. Questi giochi che invento e porto in classe, li metto in pratica anche con mia figlia di sei anni., le dico: “dimmi una parola luminosa o lunga” e quando lei mi risponde treno per identificarne la lunghezza, la incoraggio perché penso che in quella sua inventiva ci sia una chiave di lettura ben chiara, una fantasia sbalorditiva e mai banale. Faccio tutto questo anche con chi mi ritrovo davanti in classe, li stimolo a non essere banali, a non credere che l’unica parola luminosa possa essere luce ma che ci siano parole apparentemente diverse che tradiscono, in fondo, quel significato ancora più profondamente di ciò che è evidente o reale. Li invoglio e invito a mettersi in gioco, ad aprire le finestre del cervello perché spesso sono rinchiusi e impolverati. Quel che cerco e chiedo è di immaginare e dare sfogo alla fantasia e lo faccio studiando molto, aggiornandomi, leggendo libri di pedagogia didattica. Recentemente ho anche seguito il corso per leggere il mondo di Babalibri. Tutto questo mi aiuta a non intorpidire la mente ed essere sempre stimolata.

Tornando all’impellenza di fare rete, che rapporto intercorre con altre realtà editoriali e libraie? Per esempio del Festival Libbra, tenutosi qualche mese fa, cosa ne pensi?
Al Festival ci sono passata e a me loro piacciono molto. L’associazione li ha anche aiutati e ci ha collaborato in svariate occasioni. Prima della pandemia, alla puntata dell’Italia che legge ambientata a Napoli facemmo una bella cosa coinvolgendo la Rete Lire e sempre con loro organizzammo un’iniziativa sulla panchina letteraria di Nives Monda. Tra noi ci sono collegamenti, si intessono e anche se la quotidianità scivola, va separata, i fili stanno da tutte le parti e io li percepisco, li vedo. Già se solo penso, come dicevo prima, che Antonella Cristiani, partner con cui formo una diarchia democratica, spesso riveste il ruolo di editor per Dante e Descartes vedo l’apparire di quel filo. Lire è importante ma differisce da noi perché le librerie che la compongono hanno una natura commerciale molto forte oltre a un carattere identitario ben preciso e ritengo che questa sia la loro forza, che sia un elemento fondamentale altrimenti divieni anonimo o non ti distingueresti da colossi come Feltrinelli e Mondadori. La nostra natura ibrida si discosta in qualche modo dalla loro ma ciò che è importante è riuscire a incastrarsi e noi con loro questo abbiamo fatto, ci siamo incastrati e spesso, dunque, trovati. Quando la cultura genera cultura e la rete si tesse è sempre importante.

Giungiamo alla domanda più bella e spinosa: hai qualche libro da consigliare?
Attualmente leggo molto libri per ragazzi. Inizierei dicendo che ho letto un libro molto bello recentemente e si chiama “Poet X”, libro scritto in versi da Elizabeth Acevedo in cui la ragazzina raggruppa in sé esattamente tutto quello di cui abbiamo raccontato e parlato finora. È essenziale trovare libri per i ragazzi che siano uno specchio in cui loro possano riflettersi, trovarsi. Per questo spesso propongo anche letture sul calcio o sui videogiochi, su parti di mondo che loro vivono e conoscono. C’è questo libro che si chiama “Killer gamer” edito da Mondadori in cui viene narrata la storia di un gamer assassinato. Il protagonista è questo ragazzino di seconda media super fan del gamer che inizia a investigare come un detective l’omicidio del suo idolo e indaga per scoprire la verità. Per far leggere i ragazzi li devi coinvolgere ed è quello che accaduto. Leggendo si sono infervorati e appassionati, hanno creato congetture e dibattiti al punto di instaurare un dialogo acceso e vivo. Si sono così addentrati nella trama al punto di voler addirittura sovvertire la storia e la teoria dello scrittore e di voler parlare con lui per dirgli che era in errore, che aveva sbagliato nelle sue stesse indagini. Ho parlato di questi due libri, senza pretese, perché devo dire che non so dare consigli di lettura, un po’perché vado in ansia da prestazione e ogni volta che mi fanno una domanda così penso di non aver mai letto un libro in vita mia, di non averlo mai saputo fare e un po’ perché come si fa a dare un consiglio di lettura a qualcuno che non conosci e non vedi? Dipende da cosa si vuole leggere. Io stessa, spesso, non voglio leggere un autore che amo particolarmente in un dato momento della mia vita.
Posso sicuramente riconoscere la bellezza di un libro ma ho bisogno di consigliare solo dopo aver conosciuto una persona, dopo averla osservata e identificata altrimenti non credo di poter dare con leggerezza un consiglio di lettura.

Questa risposta dice molto di te e della tua personalità. Dal tuo racconto si evince un grande attaccamento alla lettura e diviene inevitabile pensare alle librerie e i libri che adornano la tua casa. Sei una lettrice forte e questo è fondamentale per il lavoro che fai.
Io non ho una libreria unica, grande. Ho tante librerie piccole, sparse ovunque, in ogni angolo della mia casa.
Ne ho una un po’ più grande ma per il resto i libri sono disseminati sui vari scaffali. In ogni stanza c’è uno scaffale o una mensola con dei libri, persino in bagno perché vale quel discorso di prima per cui il libro deve essere raggiungibile, a disposizione. Di volta in volta tento di organizzare gli scaffali. Ora, ad esempio, ho una sezione enorme di libri per ragazzi ed è un bene per quando i miei figli saranno grandi e disposti a leggere. Ho il mio tesoretto personale che avanza e cresce per il futuro. Un giorno loro attingeranno e ne sarò molto felice. Con mia figlia ho attraversato la fase di lettura ad alta voce condivisa e adesso iniziato anche la lettura da sola ed è bello vedere come la lettura fa parte della sua vita.

Sei anche una grande lettrice di poesia?
Abbastanza, a tratti, a fasi. Vale il discorso di cui sopra, non bisogna seguire un iter preciso, una regola ma leggere con libertà. Ogni lettura è importante e nessuna deve apparire o essere considerata banale,
secondaria. Ci sono dei libri generazionali che se non leggi in fasi precise non leggi più ma quegli stessi libri che col senno di poi, possono apparire banali, inutili, in realtà non lo sono mai stati e mai lo saranno. Hanno un senso perché grazie a essi metti sopra le fondamenta per poi costruire qualcosa di duraturo, di immortale.
Diventano le pietre con cui costruire il tuo personale muro, il tuo sé o i tuoi sé. Ogni lettura ha un senso anche se adesso non la riprenderesti in mano o rileggendola ti appare superflua. Tanti libri che ho letto a sedici anni o abbiamo letto a sedici anni adesso risulterebbero inutili come Siddharta o Il giovane Holden ma in quella fase della nostra adolescenza erano formative, necessarie e hanno permesso di plasmarci in quanto adulti. Questo è quello che ho provato io leggendo alcuni libri in età specifiche della mia vita, libri che adesso non so se rileggendo troverei in linea con ciò che sono diventata ma in quel momento preciso erano essenziali. Mi hanno permesso di formarmi in quanto lettrice e in quanto donna.

E se dovessi dare un consiglio a me, ora che ci siamo conosciute?
So bene cosa consigliarti, so bene che tipo di lettura potrebbe fare per te e quindi te lo dirò ma resta tra noi. Non so cosa possa essere uscito fuori da questa intervista, cosa scriverai con questa parole.

Era fondamentale che tu ti raccontassi e ci siamo riuscite.

Prima di andare via, prendiamo un caffè nella piazza in cui Giulia legge la poesia di Pedretti. Ogni parola pronunciata viene catturata nel suo racconto, ogni verso letto viene impresso nel nostro incontro come i suoi consigli di lettura sussurrati e custoditi dentro, pietre indispensabili per la costruzione di ogni sé vivente e potenziale. Quel che emerge è l’idea di rendere la lettura e la cultura comunicante, un ponte che congiunge gli esseri e si ciba di contaminazione e libertà, un pensiero in cui non si stagliano confini e ogni libro ha il suo valore e trova la sua collocazione specifica, la sua legittimazione nella vita del singolo lettore che si apre a tutto e non si lascia incatenare.
Dall’incontro con Giulia e la sua storia ciò che più resta e colpisce è l’idea che la parola sia creta che si modella nello sguardo e nella voce di chi la legge o la ascolta, dei ragazzi e dell’umanità tutta che non si cristallizzano nella sacralità del libro ma lo vivono, incontrandolo, attraversandolo.
La libertà del linguaggio, dei suoi suoni e dei suoi significati restituisce la percezione fondante che la lettura debba appartenerci in quanto parte della vita, nella più totale autonomia, abolendo le gerarchie e i dogmi che la vogliono imprigionare, che ci vogliono imprigionare. Desacralizzare la lettura e la scrittura significa rendere la cultura accessibile a tutti, pensata e vissuta da tutti, uno strumento in grado di modellare la nostra creatività e lasciarci autoaffermare ed è quello che lo spazio libreria di Giulia e l’associazione A voce alta vogliono dirci, vogliono portar fuori per ricordarci che ogni cosa che fa parte della vita e dell’umano non può restare rinchiusa dietro barricate d’avorio, non può creare spaccature e distanze.

Sabrina Cerino