Silenzio 2.0

Arrivò sulla cima di un’altura, al di sotto della quale vide la meta.
La strada, però, si interrompeva lì, e non c’erano sentieri che portassero giù.
Il ragazzo decise quindi di parcheggiare e di scendere lungo il fianco della collina, rischiando di tagliarsi con le rocce e con i rovi.
Faticosamente e scivolando almeno un paio di volte, giunse ad una minuscola insenatura incorniciata da cespugli lilla di timo, arbusti e pini che arrivavano quasi fino a toccare il mare. Non c’era sabbia, ma solo sassi grigio scuro con macchie circolari ramate o gialle. Sembravano miliardi di tartarughe.
Si girò verso la base della collina e guardò in alto. Da lì non c’era modo di vedere la strada.
E di persone nessuna traccia.
Si passò una mano tra i capelli, e con uno scatto del polso guardò l’orologio: le tre del pomeriggio. Si tranquillizzò un poco al pensiero di non avere alcuna fretta né obbligo.
Aveva solo bisogno di riflettere. Tutto qui. Il rumore del mare, così sommesso e costante, lo avrebbe aiutato.
Distese a terra l’asciugamano blu, posò lo zaino e, sovrappensiero, si mise a guardare l’acqua.
Non era azzurro chiaro e brillante come altrove sull’isola, ma turchese scuro, quasi verde.
Ed era piatta e calma tanto da assomigliare ad un lago.

Mosse i primi passi sul bagnasciuga, poi entrò in acqua. Era costretto ad avanzare piano per non ferirsi con i ciottoli sui quali camminava a piedi nudi; già così faceva male.
Qua e là alcuni scogli grigi emergevano dal mare. L’acqua era talmente trasparente da sembrare aria.
Riusciva a vedere perfettamente il fondale sotto di sé, mentre ci camminava sopra. Sassi, alghe scivolose,
pesciolini argentati.
Le piccole increspature da lui create disegnavano una serie di cerchi concentrici sulla superficie. Non senza sorpresa, notò che la temperatura era decisamente più alta rispetto a quella delle altre spiagge, dove il mare era talmente ghiacciato da essere inospitale.
“Sarà una corrente d’acqua calda” ipotizzò mentre vi si immergeva completamente. Decise di rilassarsi, di godersi quel momento di solitudine, nuotando lentamente e osservando le meravigliose colline che circondavano l’insenatura. La macchia mediterranea era aspra, ma affascinante. Poi, allargò le braccia e le gambe, si distese sulla superficie dell’acqua, galleggiando. Chiuse gli occhi, abbandonandosi completamente. Voleva prendersela comoda. Assaporava la sensazione del mare intorno a sé. Quella temperatura così particolare. L’unica cosa che lo infastidiva era l’udito reso ovattato dall’acqua che gli entrava a cadenze regolari nelle orecchie. Non resse a lungo: poco dopo aprì gli occhi e tornò in posizione verticale. Si guardò di nuovo intorno. Non era troppo lontano dalla riva, ma non toccava più il fondo già da qualche metro. Guardò in basso: il mare era trasparente come un vetro. Riusciva a vedere ogni dettaglio del proprio corpo, ma non appena provava a spingere lo sguardo oltre le dita dei piedi, questo si infrangeva contro un’invalicabile coltre verde. Il fondale non si vedeva più. La luce del sole si infiltrava in quella specie di muro come con le nuvole dopo un temporale. Piccoli corpuscoli sparivano al suo interno, come inghiottiti.
D’istinto distolse lo sguardo dall’acqua, tenendo la testa alta. Cominciò a muoversi un po’ più rapidamente, per cercare di tenersi bene a galla.
Gli tornarono in mente spezzoni di un discorso fatto con chissà chi sui possibili effetti che la differenza di temperatura tra due correnti poteva causare.
Fece un altro tentativo e guardò giù.
Niente. Non vedeva niente. Quella parete indecifrabile sotto di lui sembrava così vicina, che aveva la sensazione di poterla sfiorare con i piedi.
Deglutì. Sentì una stretta all’altezza dello stomaco. Rivolse lo sguardo alla riva, che ora gli appariva come lontanissima. Un impulso si fece strada dentro di lui. Doveva correre. Cominciò a nuotare il più velocemente possibile verso la spiaggia, ma l’acqua che prima gli facilitava i movimenti adesso sembrava ostacolarlo. La paura lo invase, nonostante cercasse in tutti i modi di liberare la mente dai pensieri. Una bracciata dietro l’altra, si ritrovò sul bagnasciuga. Maledisse le pietre che non gli permettevano di allontanarsi rapidamente dal mare.
Mentre risaliva, un soffio di vento gli gelò la pelle bagnata, portando con sé un leggero odore di timo.
Non perse tempo a sdraiarsi sull’asciugamano, il cuore che decelerava lentamente. Ora era al sicuro, al sole pomeridiano. Chiuse gli occhi.

Dopo un lasso di tempo incalcolabile, aprì pigramente gli occhi. Ebbe una strana sensazione. Il silenzio imperava. Il vento si era fermato e le foglie degli alberi non producevano più il fruscio che aveva sentito fino a pochi minuti prima. Gli uccelli erano come spariti. Non si sentivano nemmeno gli insetti ronzare.
L’unico vago rumore, ripetitivo e sempre uguale a se stesso, era quello delle placide onde. Sbatté le palpebre. Con una mano coprì il sole e girò la testa di lato, verso il mare.
Scattò in piedi, perdendo l’equilibrio e cadendo all’indietro sui sassi. Non badò al dolore e subito si rialzò,
indietreggiando il più velocemente possibile, il respiro affannoso.
Il cuore gli scoppiava nel petto, le orecchie gli ronzavano.
Accanto ad uno scoglio, a pochi metri da lui, la metà superiore di un viso bianco come la luna spuntava fuori dalla superficie dell’acqua liscia come l’olio. I capelli nerissimi erano incollati al capo e incorniciavano un paio di occhi dal colore indefinibile, fissi su di lui. Erano grandi e allungati.
Lui rimase paralizzato per diversi minuti.
Il primo movimento che fece fu chiudere e riaprire gli occhi, ma dato che il gesto non ebbe l’effetto sperato, li stropicciò con forza. Niente: la cosa era ancora lì; continuava a fissarlo negli occhi, e per qualche assurdo motivo, lui non riusciva a decidersi a scappare. Era come forzato a combattere con se stesso. Tra due istinti opposti.
Rimase immobile per altri minuti, e poi fece tutto il contrario di ciò che la logica vorrebbe: un passo in avanti. E poi un altro. E un altro ancora. E nella trasparenza dell’acqua poté scorgere distintamente il resto di quel viso, il naso sottile ma leggermente schiacciato, il collo, le spalle. Scese sempre più in basso con lo sguardo.
Un seno pallido e piccolo, i capezzoli bianchi come il resto del corpo. Vide un ventre e dei fianchi che
ondeggiavano impercettibilmente seguendo il movimento del mare.
Ma ciò che vide dopo gli fece reprimere un conato di vomito:
un unico blocco di carne chiarissima, come due gambe fuse insieme, si estendeva verso il basso fino a
scomparire alla vista, perdendosi nella coltre verde.
All’improvviso, il rumore del mare gli sembrò assordante. Insopportabile. Distolse lo sguardo. Tutto girava vorticosamente intorno a lui. Fece qualche passo indietro, trascinandosi sulle gambe malferme.
Si appoggiò con le mani alle ginocchia, controllando a fatica la nausea.
Un lamento gli sfuggì dalle labbra. Era completamente solo. Nessuno avrebbe potuto aiutarlo.
Si girò di nuovo a guardare la creatura. Lei era lì, immobile, continuava a fissarlo senza distogliere lo sguardo.
La forma della testa arrotondata, il naso quasi appiattito, bocca e seno poco pronunciati, smussati, facevano pensare ad una figura idrodinamica, levigata per millenni dal mare.
Si accasciò a terra; ad ogni movimento compiuto, per minimo che fosse, il capogiro e la nausea aumentavano fino a diventare insopportabili. La vista iniziò a sfocarsi. Lentamente, il ragazzo cominciò a non sentire più le mani, le braccia, le gambe e i piedi. Erano come anestetizzati. Un violento formicolio gli invase le guance e le labbra. Era sicuro che sarebbe morto. Pensò al suo cane. Sarebbe morto da solo lì, probabilmente nessuno l’avrebbe mai trovato. Si rassegnò. Si sentiva troppo male. Non aveva la forza neanche per compiere i movimenti più semplici. Non poteva in alcun modo rimettersi in piedi. Nessuno
poteva aiutarlo.
Girò con fatica la testa verso la creatura. Il silenzio era irreale. Non sentiva più neanche le onde. Gli risuonava nella testa, come un eco lontano, la ninnananna che sua madre gli cantava sempre quando era un bambino.
Poi il silenzio. Solo silenzio.

Il rumore delle cicale fu il motivo per cui riaprì gli occhi. Rivolse lo sguardo verso il mare. Lei non c’era più.

Claudia Paesano