Tosse

Tommaso gettò a terra il mozzicone consumato della trentasettesima sigaretta della giornata e, dopo aver sputato sull’asfalto una cospicua quantità di catarro verdastro da fumatore incallito, entrò nella stazione della metropolitana: superò con regolare abbonamento le vecchie obliteratrici e i tornelli e, dopo una lunga scala mobile in discesa, si ritrovò sulla banchina illuminata dalle luci zanzarose dei vecchi neon.
Il display digitale auspicava un’attesa di sei minuti per il treno di Tommaso, treno che, però, notò che non avrebbe preso da solo quella sera: tra il cartellone pubblicitario di una crema depilatoria e uno di un’università telematica, infatti, rannicchiato su una panchina come un feto troppo cresciuto, un individuo calvo attendeva anche lui la corsa.
Coff, cough, coff.
Lo sconosciuto, improvvisamente, aveva preso a tossire.
Coff, cough, coff, cough, cough.
Una tosse grassa e stizzosa che sembrava non volergli dare tregua.
Coff, cough, coff.
Tommaso, spaventato dalla prospettiva di un potenziale contagio, s’affrettò a raggiungere l’estremità opposta della banchina: si collocò a quasi quindici metri di distanza dall’uomo malato che, raggomitolato su sé stesso, somigliava ad una cartaccia umana da cestinare.
Coff, coff, cough, coff.
I colpi di tosse ribollenti di muchi di quel disgraziato riecheggiavano nell’ambiente sotterraneo della metropolitana e nelle bocche buie delle sue gallerie, pertugi di tenebre insondabili dove risuonava quel riverbero tisico e malsano.
Cough, coff, cough, cough.
Tommaso non aveva mai sperato così tanto in tutta la sua vita di prendere un treno il prima possibile: in preda ad un incontrollabile tremore nervoso, comparava ossessivamente l’orario riportato dal suo orologio da polso ai minuti segnati sul tabellone digitale, quei minuti dilatatisi alla stregua di ore necessari affinché il maledetto treno arrivasse.
All’improvviso, vi fu un altro colpo di tosse: questo, però, diverso dagli altri.
Più gutturale.
Più raschiato.
Un fiotto di muco denso e brunastro si riversò sul pavimento gommato della banchina dalla bocca dello
sconosciuto, generando una pozzanghera viscosa e fumante: una melma catramosa che sfiatava un vapore nauseante di cancrena. L’uomo calvo vi si accasciò di pancia con un tonfo disgustoso.
Tommaso soffocò un grido d’orrore, figlio della repulsione e dello sgomento: un conato di ribrezzo e paura che, tuttavia, fu prontamente soppresso dall’impulso altruistico di sincerarsi delle condizioni di quel derelitto. Giuntogli quindi vicino, Tommaso, turandosi il naso per scongiurare l’inalazione del miasma proveniente da quell’orrenda emoftoe, s’accorse che lo sconosciuto era ancora vivo, ma respirava a fatica: ne udì il flebile ansimare, un debole sibilare sofferente, segnale preoccupante di una probabile morte incombente. Voltò quindi il corpo a pancia in su, affinché il moribondo potesse prendere meglio aria.
Fu in quell’istante che Tommaso vomitò dai polmoni un urlo straziante.
L’eco vorticante della sua voce riecheggiò sotto terra.
Quell’uomo aveva infatti lo stesso, identico viso di Tommaso, o, meglio, il viso di una versione di sé stesso che non avrebbe mai voluto vedere: una maschera glabra, consunta e tutta occhi che boccheggiava in un digrignare di gengive edentule e chiazzate di nero, una smorfia di agonia che tracimava liquame marrone dalle fauci vuote al suono di ripugnanti gargarismi.
Tommaso temette di essere impazzito, di essere vittima di una sinistra allucinazione, di un incubo ad occhi aperti: intontito da uno stato confusionale che sembrava aver svuotato di sostanza e tangibilità l’ambiente attorno a lui, prese ad indietreggiare con volto agghiacciato da quel riflesso così spaventoso.
Le luci del treno sferragliante sfavillavano veloci dalle tenebre della galleria: il clangore metallico della
metropolitana incalzava frenetico verso la banchina.
Tommaso scivolò nella pozza di catarro scuro.
Finì sulle rotaie.
E la luce lo investì.

Pasquale Sbrizzi