Un continuo sali scendi.
Si sedettero ai lati della pompa dell’acqua e spinsero, da un lato su e giù, dall’altro giù e su. E così, in effetti, presero a chiamarsi. Chi si metteva sempre a destra era Giùsu, e chi si metteva sempre a sinistra si fece chiamare Sugiù.
Fin dalla primissima volta, spuntarono due margherite.
Sugiù aveva dovuto studiare mezza vita per braccare qualcosa che chiamavano dignità, e Giùsu aveva rischiato così tante volte di non tornare dalla foresta stecchita alle sue spalle che a volte morire sembrava il pasto della domenica. Nessuno dei due aveva mai visto dei petali incarnarsi dal desiderio. Si dissero che faceva bene e non avrebbe mai potuto far male.
Iris, ibischi, rose, non-ti-scordar-di-me; timo, rosmarino e basilico. Sbocciavano ai lati delle ginocchia, piegate in terra per spingere e spingere, potevano dirsi felici.
Ma l’idillio è un’illusione data dalla chimica, e la piccola foresta circoscritta dalla larghezza del loro spirito divenne una stanza stretta e condivisa con qualcuno che puzzava di carcere e non di casa. Giùsu accennò che aveva delle necessità, Sugiù disse che non era compito suo rispondere a queste necessità. Giùsu voleva piangere perché sembrava che delle sue emozioni non importasse mai. Si girò per andarsene. Appena lo fece, le radici, che dalla pianta del piede entravano come coltelli nel mondo, si strinsero. Tirò comunque, e il piede destro perse il contatto con la terra. Subito avvizzì, con lui, tutta la gamba destra, salendo e portando un vento arido tra i muscoli: pelle scarlatta attorno agli occhi, macchie viola per il sangue fermo. Sugiù vide i suoi fiori preferiti perdere l’anelito, e dentro, forse per questo forse per il dolore di Giùsu, una apprensione millenaria di non aver null’altro che la propria solitudine da impegnare, nonostante mezza vita passata a studiare per avere un sistema d’irrigazione quantomeno efficiente. Giùsu non credeva già più a nulla, e il risultato di tanta fatica gli pareva un sogno raccontato da una passante dopo un gran temporale. Stava andandosene (chissà dove, non aveva mai davvero conosciuto il mondo al di là della collina.)
Poi sentì il suo nome.
Non lasciamo che tutto questo muoia.
E già gli iris si facevano grigi.
A te non importa della mia anima interrata, vuoi solo le belle ginestre, le grandi querce, le margherite che ami perché ami il semplice che nasce per te. No. Addio.
E prese a camminare. Ma, da vecchia cariatide, andava lemma lemma, senza flemma; la gamba tonica spingeva con forza, ogni tanto, per far vedere che faceva sul serio. La radice sinistra era meno rigida, non tirava troppo.
Sugiù strappò le radici dalla sua pianta destra e le mise nella pianta di Giùsu, che gridò come se cento proiettili avessero collegato il mondo dietro con il mondo avanti al suo, e la luce li attraversasse; una luce che spezza una certa continuità di pensiero, un pensiero che metteva insieme un castello di rami secchi, anche se tutt’intorno c’è la vita nelle sue forme più disparate a rincorrersi.
Giùsu ringiovanì, Sugiù si rinsecchì per metà, immobile a contemplare Giùsu e quel che aveva alle spalle. Come se i secoli a venire si stessero condensando sui suoi occhi, Sugiù vide tutto quel per cui aveva lavorato appassire, senza nemmeno un lamento. Strisciò verso la pompa. Giùsu aiutò il corpo una volta forte. Siccome aveva entrambe le radici piantate, Giùsu lavorava più intensamente.
Spinse con tutto il suo peso la pompa facendo quasi sbalzare Sugiù.
Querce e faggi coi tronchi comicamente grossi, pieni fino a scoppiare, a toccarli ondeggiavano. Era eccessivo; ma la vita, a quanto pare, sembrava in grado di ricominciare, forse sarebbe evoluta in marciume, funghi, licheni, muffe.
La sorpresa fu tale che Sugiù si accasciò a terra, e pregò di morire in quel momento. La collina cresceva senza problemi, si beffava della sua inabilità a farsi vita nella morte. Giùsu disse, con una dolcezza che non aveva mai avuto e forse non ebbe mai veramente, non morire. Sparì dietro la collina.
Sugiù se ne preoccupò poco: ogni cosa che pensava fluiva in un’apocalisse personale. Incise sulla sua pelle e tutto intorno a dove dormiva immagini di cose preziose, irripetibili. La collina divenne il diario di un’esistenza passata a coltivarsi, ma con i frutti che sapevano di calce. Passarono molte stagioni così, finché non si stancò, girandosi su di un lato. Ormai, nulla sembrava più degno di
menzione.
Le giornate rimanevano attaccate al palato e non sentiva altro che un gusto acre e polveroso.
Passava il tempo con gli occhi chiusi, sperando non si riaprissero. Eppure, si sbarravano, e così rimanevano, a volte, per quelli che erano mucchi di tempo indefiniti, respiri sospesi per una sorpresa che smetti di aspettare, almeno consciamente. La loro piccola foresta – forse ora solo sua – si stringeva attorno al disegno che aveva impresso sull’erba.
Si dimenava, ogni tanto, nel suo giaciglio. Ripensava a Giusù con un sentimento non oppositivo, quando non era il centro del suo ragionamento.
Mancava poco: un ultimo sospiro per maledire il tempo e Giùsu; e poi, si abbandonò, sentendo che l’ultimo filo della sua vita era quello della volontà. In quel momento, gridò come se una grossa lancia avesse bucato il petto. Sugiù, non voglio che muori. Guarda questo giardino, guarda questa vallata, vuoi perdere tutto? Non ti preoccupare, e indicò la pianta del suo piede destro, e vide che c’erano delle radici nuove. Come hai fatto, Giùsu, come, chiese, e rispose che aveva cercato come intrecciare radici per amore, e il mondo non aveva risposto nemmeno per sbaglio, aveva viaggiato con il petto spezzato, aperto, a tirar fuori cordoni che dalle orte scendevano ai piedi per non fermarsi: mezza vita buttata a rincorrere una conoscenza senza maestri e dottoresse, per poi rendersi conto che bastava auscultare con le dita; tirare, con delicata concentrazione, quelle venuzze nascenti e intrecciarle un poco alla volta, continuamente, con la speranza sia abbastanza – intrecciare anche questa – e piantare ancora. Piantare di nuovo. Guardando negli occhi chi aveva vissuto tutta la vita lì, sulla collina, con Giùsu, disse che aveva capito che la vita continua anche quando si rompe, che
anzi, sarebbe continuata per sempre, prima e dopo di noi, e che quindi non potevamo restare inermi a guardar tramontare aspettando non succeda più.
Dal piede di Sugiù partiva un intreccio rossiccio, che bucava il petto di Giusù e si conficcava nel suolo.
Ma ora non potrò camminare dove voglio.
Provaci.
Aveva di nuovo un corpo florido. Si alzarono. Sugiù camminò via dalla pompa, e per un po’ andò senza problemi. Poi sentì che il suo piede veniva tirato indietro, e c’era Giusù che si manteneva il petto.
Vedi, siamo intrappolati più di prima.
No. Ora, se vogliamo, possiamo muoverci, insieme. E se un giorno vorrai camminare senza di me, dovrai solo aiutarmi a staccare le tue radici dal petto.
E se morirò?
E se moriremo?
Quindi non lo sai?
No, non lo so. Non credo potremo mai saperlo. Però, per adesso, questa è l’unica soluzione che ho trovato. Che ci vuoi fare?
Giùsu andò a sinistra, Sugiù a destra, la foresta alle spalle con le foglie, la vallata lontana col mare in tempesta, con i pesci festanti, con il sole spezzato e sanguinante come una placenta.
Sugiùgiùsu e Giùsusugiù si guardarono, e videro quel mondo minuscolo in collina farsi enorme, la galassia una biglia a confronto dell’elettrica confessione tra loro, ma anche fragile come il pane nelle mani delle formiche che cercano l’oro; perché non dico che siamo meschini, ma almeno crudeli nel credere che siamo ciò che fa sorgere il sole per chi lavora alla pompa con noi.
Ma è certezza totale che siamo crudeli, non solo meschini, quando crediamo, senza dubbi, di non poter far crescere le foreste che salverebbero la schiena di SugiùgiùsuGiùsusugiù. Non dipende da che parte stai, ma cosa impegni al banco, cosa chiedi in cambio. E sempre l’acqua va dentro la terra perché ce la spingiamo noi.
La storia finisce con Sugiù che tira fuori dal petto di Giusù quelle radici, che le pianta meglio, che tirano meno. Qualcuno, forse entrambi, divenne rami secchi da bruciare. Ma questo non importa, non più almeno.
Alessandro Di Porzio
