Un nodo in gola.

Io voglio molto bene a Sara. Lo so, anche se i miei Ti voglio bene sono un riflesso, una scarica che dalla mano sinistra mi arriva alla bocca passando per un filo di rame tra la spalla e la gola. Sara preme, io dico Ti voglio bene, Sara sorride, io sono felice.
È stato così fino a qualche mese fa, quando abbiamo dovuto lasciare casa per stare in questa stanza tutta bianca, con una finestra e due letti: in uno ci siamo noi, nell’altro nessuno. Sara aveva la febbre alta, non scendeva, e Mamma ci ha portate qui. Aveva promesso che ci saremmo state pochissimo. E poi hanno legato Sara. Cioè, non proprio legata, si può muovere e tutto, ma ci sono tanti di quei tubicini di plastica, sono attaccati da un lato a lei e dall’altro a una macchina che fa un rumore sordo, come se grattasse un fondo sabbioso con le unghie lunghe. Gratta in continuazione, giorno e notte, gratta e si ferma, gratta e si ferma. Scandisce il tempo a un ritmo che non somiglia a nient’altro. Non è il battito del cuore. Non è il respiro, questo uno-due su cui bisogna adattare i tempi di tutto il resto. E allora cos’è?
Da quando siamo qui, Sara non cerca più la mia mano. Io glielo vorrei dire, Ti voglio bene, anche se non mi sorride sarei felice lo stesso di fare un suono che non c’entra niente con questo, prepotente, che gratta e si ferma, gratta e si ferma. Con la mia voce fuori tempo le ricorderei che è ancora la mia amica, quella che mi faceva arrampicare su tutti i mobili, quella delle merende con la Nastrina rimasta troppo nel microonde che invece di essere calda diventava croccante. Glielo direi,
Ti voglio bene anche ora che senza i tuoi capelli neri neri e con gli occhi diventati giganti non ti riconosci più. Resti Sara, io ti vedo, Ti voglio bene. E invece resto zitta sul comodino, tra le siringhe ancora chiuse e le Nastrine che si accumulano, morbide e fredde, ognuna nella sua plastica.
Le parole a mezza voce di Mamma e Papà rotolano via, trascinate, assorbite dalla sabbia sul fondo che gratta e si ferma, gratta e si ferma. Il Dottore mi indica e sorride, mi preme la mano,
Ti voglio bene.
Sara non si gira nemmeno. Torno sul comodino.
Il letto accanto al nostro diventa spazio di qualcuno. Valigia rossa, pigiama di Spider-Man, occhialetti dalla montatura azzurra, le guance paffute di chi sta appena iniziando a capire cosa gli succede. Che si chiama Claudio, lo riferisce sua mamma. Lui si presenta a Sara dicendo:
– La tua scimmia fa schifo.
Due bambini, due mamme, due papà, dottori per due, eppure. L’ultima parola è sempre la stessa, quella di un tempo che gratta e si ferma, gratta e si ferma.
Sara e Claudio si guardano e annuiscono. Gli stessi occhi neri, un colore bruciato che è rabbia e paura. Le stesse mani, che nei due letti maltrattano lenzuola ancora calde di ferro da stiro.
Il primo che piange ha perso.
Non hanno bisogno di dirselo. Si guardano e annuiscono. Sara mi prende e mi stringe la mano.
Ti voglio bene.
– La tua scimmia fa schifo.
– Tu fai schifo.
Ti voglio bene.
– Falla stare zitta.
Ti voglio bene. Ti voglio bene.
Claudio prende il cellulare.
Gratta e si ferma. Gratta e si ferma.
Passano i giorni, si contano sulle guance sempre più magre di Claudio. Sono giorni di guerra silenziosa, ai grandi, al dolore, agli incubi, a chi dall’altro letto aspetta di vincere il gioco, ai dottori con mani gentili che fanno paura.
Sara stava intrecciando l’ennesimo bracciale dell’amicizia con il cotone doppio. Ormai, a guardare i polsi di medici, infermieri, inservienti e volontari, era amica di tutto l’ospedale.
– Claudio?
Sua mamma lo chiama. Lui non si muove.
Gratta e si ferma.
– Dottoressa, Claudio ha della schiuma vicino alla bocca.
– Claudio? Claudio?
Gratta e si ferma.
Sara, nel suo letto, è rigida come cristallo. Si gira implorante verso di me. Papà scatta in piedi e diventa una statua, fermo immobile, nelle braccia e nella schiena gli si è congelato un gesto confuso.
Ti voglio bene.
– Claudio, guarda mamma. Claudio?
– Claudio!
Ti voglio bene. Ti voglio bene.
La mano mi brucia per quante volte Sara la preme.
La stanza si affolla di dottori con macchine strane. Papà tira la tenda tra i due letti.
– Claud
Tivogliobenetivogliobenetivogliobenetivogliobene.
– Non ris
Tivogliobenetivogliobenetivogliobenetivogliobenetivogliobene.
No, Sara, non ora. Non così.
Tivogliobenetiv…
Continua a premermi la mano, con una furia che sembra voglia bucarmela. Il riflesso a dirle ancora Ti voglio bene mi spinge impazzito contro il nodo in gola, mi sono ingarbugliata apposta il filo di rame, per non farci passare più niente. Il nodo si ingrossa, pulsa, sto per soffocare. Sara mi sbatte per terra. Da dietro la tenda, una voce acuta soffia fuori dal petto un pianto appena udibile, che cresce e si fa mare e inonda la sabbia su cui gratta il tempo della macchina. Anche Sara piange, stretta a Papà.
Ti voglio bene.
Scusate, mi è scappato. Sarà la posizione, col sedere in aria e la testa sotto l’ascella.
Quando la tenda tra i due viene risospinta contro il muro, Claudio guarda Sara con aria colpevole.
– Ho pianto.
– Anche io.
– Quindi abbiamo vinto tutti e due?
Ti voglio bene.
Scusate, mi è scappato.
– La tua scimmia fa schifo.
– Tu fai schifo.

Sabrina Silvestri