Verso un io transpersonale.

Tracciare la storia dei miei testi mi sembra tanto azzardato quanto tracciare quella della mia vita. Come spiegare un approccio del quale i dettagli non mi sono chiari, dal momento che ciascun progetto è l’espressione di un desiderio, di un «è più forte di me». Detto questo, sospetto che in questa reticenza nel voler tornare indietro ci sia un altro motivo: chiarire il modo in cui i miei libri sono stati scritti non mi serve a nulla per ciò che sono mentre scrivo, l’avvenire è sempre al buio. Che ciò possa servire ad altri, o a una qualsiasi storia della scrittura, non ne ho alcuna idea.

Quando ho cominciato a scrivere Gli Armadi vuoti, il mio progetto era mettere in luce non la totalità o una parte della mia vita passata, ma una dimensione di quest’ultima: il passaggio da un mondo popolare ad un mondo culturalmente dominante, grazie alla scuola. Ricordo che si è presentata sin da subito la questione dell’enunciazione, io o lei. Indecisa alla fine – e non per la prima volta – ho tirato a sorte. Il caso ha deciso io, ma il fatto che non abbia tirato una seconda volta indica che i dadi tratti corrispondevano alla mia preferenza. La forma del romanzo, quella, si è imposta come un’ovvietà. Scriverò la storia di Denise Lesur, vent’anni, che, mentre abortisce nella sua camera della residenza universitaria, negli anni sessanta, si ricorda della sua infanzia e adolescenza, fino a quel momento. Struttura molto tradizionale. È così che ora analizzo questa scelta spontanea, dell’inconscio:

–  mantenere il dubbio sulla corrispondenza tra l’io e me, l’autore (anche se non ero affatto sicura di essere pubblicata, bisognava aspettarsi di tutto). La narrazione protegge, è una posizione ambigua e inespugnabile. Nessuno avrebbe avuto il diritto di dire «voi siete Denise Lesur». Scoprirò in effetti che è più facile dichiarare in un’intervista «Denise Lesur disprezza i suoi genitori» che «disprezzavo i miei genitori».

– gioire della più grande libertà di scrittura. La maschera romanzesca rimuoveva le censure interiori di ogni tipo, mi permetteva di spingermi il più in là possibile nell’esposizione del non detto familiare, sessuale, scolastico, con una modalità di violenza e derisione[1].

– «fare» letteratura. All’epoca, per me, la letteratura era il romanzo. Avevo bisogno che la mia realtà personale divenisse letteratura: soltanto diventando letteratura essa sarebbe diventata «vera» e qualcosa di diverso dall’esperienza individuale. Utilizzavo spontaneamente quella forma che incarnava allora ai miei occhi la letteratura.

Ho scritto tre libri con questa convinzione. Non la metto in questione nel terzo, La Donna gelata, poiché accetto che romanzo figuri sulla copertina, ma l’io stavolta è anonimo, facendo cadere un dubbio più solido sul rinvio all’autore. Del resto, il racconto è costruito sulla modalità del ricordo, delle origini in un presente indeterminato (perché «gelato») che potrebbe essere quello dell’autore così come della narratrice. Insomma, statuto incerto di questo libro, manifestato da incontri con dei lettori duranti i quali mi si attribuiva spesso senza mezzi termini l’esperienza della narratrice e nei quali rinunciavo a rettificare: «non io, l’eroina».

Paradossalmente, mi sono allontanata dalla forma romanzesca con il progetto di scrivere di qualcuno che non fossi io, il progetto di scrivere di mio padre. Non in maniera brutale, in un processo di anni (una dozzina di abbozzi di romanzo, di cui uno di cento pagine, attesta al contempo la mia difficoltà ad abbandonare il genere e i miei blocchi), durante i quali ho messo in questione la letteratura in generale, il suo ruolo e il suo significato come pratica[2]. Sono arrivata a questa conclusione: il solo giusto mezzo di evocare una vita, apparentemente insignificante, quella di mio padre, e altresì di non tradire (la classe sociale da cui provenivo e che avrei preso in oggetto) era di costituire la realtà di questa vita e di questa classe attraverso dei fatti precisi, delle parole sentite, i valori dell’epoca. Il nome dato a questa impresa e al manoscritto fino al suo compimento – il titolo Il Posto ha prevalso soltanto alla fine – traduce chiaramente il mio intento: «Elementi per una etnografia familiare». Sentivo molto fortemente che il romanzo era una sorta d’inganno. Fare di mio padre un personaggio, della sua vita un destino fittizio, mi sembrava il tradimento continuo della vita in letteratura (anche se non m’importava più di piazzarmi all’interno o all’esterno di quest’ultima).

Naturalmente, se il lui rinviava ad una persona reale, doveva valere lo stesso per l’io. Ogni ambiguità in proposito avrebbe tolto al libro la sua ragion d’essere. M’inserivo nel testo come figlia che aveva condiviso lo stesso mondo di mio padre, operaio divenuto piccolo commerciante, e come narratrice, insegnante passata al mondo della parola «legittima». Quindi in una via di mezzo, una distanza reale che il testo espone, che è impossibile dissimulare, perché in un libro come questo la posizione sociale, culturale del narratore è maggiore.

Così il mio passaggio dall’io fittizio all’io veritiero non è dovuto al bisogno di smascherarsi, ma legato a una nuova impresa della scrittura che, in Una donna definisco come «un qualcosa a metà tra la letteratura, la sociologia e la storia». Con questo voglio dire che cerco di oggettivare, con mezzi rigorosi, un «vivente» senza abbandonare quella che è la specificità della letteratura, ovvero l’esigenza della scrittura, l’impegno assoluto del soggetto nel testo. Ciò vuol dire anche, ovviamente, che rifiuto l’appartenenza ad un genere preciso, romanzo e anche autobiografia. Autofiction non mi si adatta più. L’io che utilizzo mi sembra una forma impersonale, a stento sessuata, a volte ancor più una parola dell’«altro» che una parola dell’«io»: una forma transpersonale, insomma. Non costituisce un mezzo per costruirmi un’identità attraverso un testo, per autonarrarmi, ma per cogliere, nella mia esperienza, i segni di una realtà familiare, sociale o passionale. Credo che i due approcci, anzi, siano diametralmente opposti.

[1] Anche se mi chiedo se la più grande libertà non mi sia stata data dall’incertezza nella quale mi trovavo su un’eventuale pubblicazione. Quando ho saputo che il mio manoscritto sarebbe stato editato, mi sono spaventata, bruscamente cosciente di ciò che avevo scritto.

[2] Degli avvenimenti d’ordine privato o pubblico – ad esempio l’incarico di un corso sull’autobiografia – hanno avuto un ruolo in questa messa in discussione. D’altro canto, è quasi sempre la vita che mi ha obbligata a delle revisioni dello scritto.

 

Testo di Annie Ernaux, « Vers un je trans personnel », pubblicato per la prima volta in Lecarme Jacques (dir.) Autofiction & CieRITM, n° 6, Université de Paris X, 1994, p. 219-222.

Traduzione in italiano a cura di Marzia Imparato