Al suo terzo incontro, la rubrica SegnaLibrai approda nella casa editrice Editoriale Scientifica della famiglia De Dominicis. In una giornata soleggiata di aprile, in cui la natura richiama a sé la primavera e mostra il suo incanto dipingendo di verde gli edifici, tinteggiando di glicine le facciate, colorando di un blu pastello il cielo nel quadrato perfetto di uno spazio storico come Palazzo Marigliano, luogo fisico e spirituale che accompagna la via maestra di San Biagio dei Librai e racchiude tra le sue mura la storia del libro nella sua forma ed essenza, scorgiamo tra le botteghe tipografiche e artistiche e la sede archivistica e bibliografica della Campania, questa casa editrice in cui si respira l’arte del fare editoria sin dal 1975, arte che interagisce con un lettore spesso occulto ma ricercato, carezzato e compreso come fosse parte di una famiglia. Dalla ricerca alla cura tipografica, dall’accoglienza calorosa e umana con cui siamo entrati in contatto, tutto ci riporta all’esigenza che abbiamo di scoprire e riscoprire i luoghi che si occupano di cultura e che con passione, attenzione, pazienza e accoglimento scrivono la nostra storia.

La passione per l’editoria e per il libro ci spinge a chiederle cosa significa aver fatto e continuare a fare editoria di cultura. Rifuggire il mercato nel senso più commerciale del termine eppure comunicare con esso.
Inizierei, raccontando delle origini della nostra casa editrice, nata con una fortissima impronta giuridica e a lungo indirizzata a un mercato selezionato, orientata verso una scelta settoriale molto specifica relativa a quello che era il mondo universitario e dei concorsi e in particolar modo giuridico quindi per gli addetti ai lavori, magistrati e avvocati. Questa scelta ha ripagato perché avendo optato per un piccolo segmento di mercato, la concorrenza è stata minore e rispondere alla domanda più facile perché conoscevamo da più vicino la richiesta da soddisfare. La linea di cultura è stata ideata interamente da noi ed è nata da una profonda ricerca a cui è conseguita una pubblicazione specializzata. Infatti, ci siamo specializzati in materie in cui avevamo un rapporto diretto con professori che consideravamo non solo più bravi ma professionisti del settore. Questo è un discorso che vale sia per gli avvocati sia per i magistrati che per i docenti. Quando la casa editrice si è ingrandita, allora, tutto è diventato più facile. Tutte le collane hanno iniziato ad avere delle direzioni, dei comitati. Attraverso le indicazioni che ricevevamo da determinati comitati scientifici, ottenevamo un materiale ben selezionato da cui trarre una forte certezza e una relativa sicurezza che ci spingeva a pubblicare e a fortificarci. Avendo, attraverso questo operato, irrobustito le spalle, abbiamo deciso di intraprendere nuove strade, creando una serie di collane di narrativa e di saggistica ed entrando ufficialmente a contatto con un altro mondo in cui la concorrenza è spietata. Per immetterci in questo mercato e non sentirne troppo l’urto, abbiamo principalmente pensato un qualcosa di forse abbastanza banale, aggirare il problema rifuggendo lo scontro diretto con dei colossi commerciali come Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli, quindi, evitare di entrare in concorrenza con questi giganti che tendono ad assorbirti perché non puoi tenere il loro passo né nella distribuzione né nella continuità di pubblicazioni. Loro tendono a fare moltissime pubblicazioni nel giro di poco tempo. C’è stato quindi questo passaggio obbligato (non negativamente, anzi) di creare un prodotto di qualità o ancor meglio, un prodotto diverso, meno omologato a quello che è richiesta corrente, soddisfabile da case editrici di cui parlavamo prima e che sono ben più impiantate in un sistema commerciale, istituzionalizzato, economicamente già inquadrato. Una politica del genere, quindi identitaria, può essere fatta proprio quando si è più piccoli e c’è una maggiore attenzione al catalogo, una cura più attiva oltre che una scelta più specifica. Paradossalmente, infatti, sono le piccole case editrici in Italia a produrre più cultura sia perché la cultura, una delle sue basi è proprio nella diversificazione sia perché c’è più interesse nella scoperta. Un paese più ti regala diversità nei linguaggi, nei modi d’espressione e più può prosperare, può produrre curiosità, intelligenza e piacere nella lettura. Il vantaggio delle piccole case editrici, che negli ultimi anni hanno prodotto decisamente più cultura poiché fuoriescono da quei format prestabiliti delle grandi case editrici che propongono titoli molto simili l’uno dall’altro, sta proprio nella pubblicazione di quella che potremmo definire una chicca, un prodotto eccellente per lo più di nicchia che il grande editore non può permettersi perché rischierebbe di non rientrare degli enormi costi effettuati in partenza. Al contrario, il piccolo editore non dovendo fare quelle tirature eccessive per rientrare nei costi, è più libero. Libero di pubblicare un libro particolare e raro che preserva la pluralità.
Ben venga anche la pubblicazione della grande casa editrice, di titoli forse più conosciuti e più canonici ma è necessario conservare quella pluralità di voci, di titoli e di autori che garantiscono la diversità e tutelano le possibilità di sopravvivenza di tutti.

Quello che oggi, forse, manca di più nelle grandi case editrici è proprio questa diversificazione e libertà. Ad esempio, da sempre, la poesia ha mostrato di poter rappresentare una salvezza a livello editoriale perché conserva intrinsecamente, anche nella pubblicazione, quel suo carattere identitario.
Guardando nello specifico la realtà di oggi quale ritiene siano gli strumenti per garantire queste due dinamiche essenziali?
La poesia è sempre stata più libera. Il suo essere di “nicchia” ne conserva l’unicità. Però, attualmente, quello che sovente può aiutare, ora dico una cosa che può scandalizzare ma che va detta, sono i social. Ad esempio, le librerie, anche loro per ragioni commerciali danno molto più spazio ai grandi editori piuttosto che ai piccoli e per loro quindi diventa più difficile emergere e per le persone più difficile scovare e scoprire quei titoli esclusivi editi da realtà più piccole e quindi sfavorite ma oggettivamente più forti a livello identitario.
Attraverso i social si ristabilisce quel criterio di un tempo, quando i librai leggevano i libri e li sapevano consigliare, offrivano una gamma di possibilità, stabilivano un dialogo e un contatto. Oggi è complesso perché viviamo in un mondo più veloce, in cui vengono pubblicati libri in continuazione e diviene anche difficile leggere ogni uscita, consigliare, tenere il passo. I social in questo aiutano perché permettono uno spazio di condivisione del prodotto in uscita o anche semplicemente del prodotto che è stato letto, apprezzato, riconosciuto come spiccatamente unico, non omologato e che si vuole consigliare. Riempiono in qualche modo quel vuoto che si è andato a creare nel corso del tempo. Si ha quindi la possibilità per queste piccole realtà (sia case editrici che librerie) di emergere, di mostrare quel grado di diversificazione e particolarità, di ottenere un proprio ritmo e in un mare magnum di cose anche non belle, può accadere allora che venga scovato quel libro unico, quel seme raro da coltivare. Io sono sempre per il rapporto diretto, per l’idea di andare nei luoghi, di incontrare le persone ma riconosco che se usati bene, soprattutto dai lettori forti ed attenti, i social e persino purtroppo Amazon, possono essere di aiuto, soprattutto nel caso specifico dei libri rari, di quelle chicche di cui abbiamo parlato e che permettono a una casa editrice come la nostra di avere un suo pubblico e di fare cultura.

Cosa significa aprire una realtà del genere a Napoli?
È molto complicato per diverse ragioni. La ragione principale è che una casa editrice, anche se non dovesse puntare ai prodotti più spiccatamente culturali, vende un prodotto, un bene per nostra sfortuna non primario ma di seconda necessità. Quindi, si tende già ad investire in qualcosa che non è detto che il mercato possa facilmente inserire. In più qui c’è un tessuto sociale molto più povero, più disgregato. Decidendo di investire in un oggetto come il libro, in un contesto culturale complesso ed economicamente più impoverito – è triste ammetterlo – parti già da una condizione più svantaggiata. Questa povertà si evince in tutto, non solo a livello sociale ma anche personale: è notorio che i librai napoletani siano meno ricchi di quelli milanesi. È tutto la catena a mostrare questo squilibrio. Napoli, città di editori storici e grandiosi che purtroppo sono mano a mano venuti meno e sono divenuti pochissimi, è una città dove anche nel campo dell’editoria spicca troppo l’individualità. Ogni volta che noi editori campani abbiamo cercato di fare qualcosa e secondo me è in questo emblematica Galassia Gutenberg, ci siamo scontrati con le istituzioni. Galassia Gutenberg è stato il tentativo di fare a Napoli quello che fanno i milanesi e i torinesi, una fiera del libro colma di studenti in una città bella come Napoli, a mio avviso più bella di altre città o bella tanto quanto altre città. È triste pensare che una città così bella non riesca a portare avanti o a far partire il progetto (come la fiera del libro) che invece persiste in altre realtà. Non riesce a farlo partire perché c’è sempre stato un pessimo dialogo tra le istituzioni e gli editori (problematica che, forse, tendiamo ad avere soltanto noi). Così, si genera un rapporto molto conflittuale, riscontrabile anche tra le varie realtà editoriali che tra di loro hanno raramente trovato un’armonia e sono state spesso attraversate da invidie e strascichi di competizione, oggi oserei dire sterile perché oramai tramutata in una competizione tra poveri. Altri grandi editori non hanno vissuto o non vivono questa competizione come la viviamo qui ma forse questo è inevitabilmente acuita dalla mancanza di una ricchezza o di una sicurezza economica invece evidente in altri contesti, inevitabilmente più avvantaggiati economicamente e istituzionalmente.

A maggio si terrà il festival LIBBRA (6-7-8 maggio), portato avanti dalle realtà indipendenti della rete LIRE che cercano appunto di tenere vivo questo discorso, emergendo dall’anonimato e dall’isolamento che spesso le realtà più forti e ricche tendono a creare, generando una sorta di confinamento.
L’obiettivo, quindi, è fare gioco forza tra diverse realtà, mostrando come possa essere creata un’armonia tra le parti e portata avanti quella diversificazione necessaria non soltanto per la sopravvivenza ma per la progressione.
Sì, esatto. I tentativi sono stati vari, ne abbiamo fatti tanti e questo rientra a pieno titolo nel discorso che stiamo portando avanti oggi: un’idea di comunanza e progressione vitale.

In qualche modo, dalle sue parole, emerge questo bisogno di s-confinare non soltanto a livello istituzionale e sociale ma anche editoriale. Da casa editrice di settore avete, in qualche modo rotto gli argini. La mancanza di un genere prestabilito e limitante è appunto evidente nella collana S-confini. Ce ne parla?
Crescendo da un punto di vista editoriale, quindi acquisendo maggiore visibilità grazie al settore giuridico ed economico, avevamo ricevuto una serie di impulsi a fare altro, da parte di autori e librai. In passato già avevamo iniziato con una collana su Capri che infatti prosegue perché mio padre è molto legato al luogo.
Abbiamo iniziato a pubblicare nel tempo molte cose che ci piacevano e in cui credevamo. Ovviamente la distribuzione era molto ridotta, confluiva per lo più nelle librerie campane.
Parlando con Fabrizio Coscia, a cui sono molto legato perché ci unisce un rapporto di vecchia data e di reciproca stima, ci siamo confrontati molto sull’argomento e lui all’inizio era abbastanza scettico perché preoccupato soprattutto sulla prosecuzione della collana. Aveva uno sguardo già proiettato verso il futuro e quindi inevitabilmente un atteggiamento più restio. Io, invece, non solo sentivo che fosse arrivato il momento ma sapevo di avere le spalle più larghe e quindi una predisposizione a garantire una programmazione più capillare. Nella narrativa rispetto al settore giuridico questa garanzia di una programmazione è per forza di cose necessaria. Gli stessi librai cominciano ad interessarsi quando puoi garantirgli un progetto, una continuità della collana nel corso del tempo. Abbiamo allora deciso di presentare questa collana ed è stato lui a volere questa forte indicazione ibrida. Fabrizio, infatti, a giusta ragione sosteneva che di narrativa siamo subissati e invasi, trovare un libro di narrativa o un romanzo valido e fuori dal canone diviene complesso e molto coraggioso senonché ridondante. Invece scovare questi ibridi, di cui lui si sente sicuro e più esperto perché non è soltanto il direttore della collana S-confini ma uno scrittore di ibridi. La scelta di sconfinare e pubblicare questi libri ibridi quindi non solo nasce dallo sguardo più attento di Fabrizio ma da una precisa indicazione editoriale, perché piombare come piccoli editori con una piccola sezione di narrativa nel vasto mare del romanzo sarebbe apparso troppo rischioso, poco pratico e soprattutto lontano dal nostro stesso progetto. Trovare un romanzo che uscisse fuori dal canone ci sembrava molto più difficile e limitante rispetto invece alla scoperta di autori che scrivessero libri meno omologati in cui si
potesse spaziare dal diario di viaggio alla non-fiction. Dunque, ho ascoltato con molto interesse questi consigli di Fabrizio, quest’idea che si potesse partire da un’ibridazione per entrare a modo nostro nello spazio della narrativa.

È stata una scelta coraggiosa ma anche ponderata e intelligente. Il morbo della modernità si esplica proprio nel frammento, nell’incertezza e dunque rientra pienamente in questa concezione ibrida della scrittura ma anche dell’umanità. Ritiene che possa essere una salvezza per l’editoria, connettersi a questo lato più spiccatamente umano? Nella recensione di Andrea Manzillo presente nella nostra
rivista cartacea, del libro Ìsula di Francesco Borrasso, edito da voi, emerge il concetto tutto umano dell’imperfezione, il coraggio della non-fiction e quindi in qualche modo della verità: Secondo lei quanto è importante il fattore umano?
Il fattore umano è importantissimo perché il mestiere dell’editore è bello, non solo perché pensa, fa, produce qualcosa di stupendo come il libro ma connette, crea un legame con l’autore, un legame non soltanto giuridico ma umano, di confronto. Il rapporto non termina o si esaurisce nelle email ma è appunto un confronto continuo che risulta anche divertente perché spesso mi accorgo che ascoltano molto di più i giuristi che gli scrittori. I giuristi sono meno narcisisti, lo dico ironicamente ma indubbiamente è vero, gli scrittori guardano sempre le critiche degli editori con cipiglio polemico, con conflitto. In realtà è proprio questo il bello, che ci sia quel conflitto perché aiuta a progredire, a crescere.
Lo scrittore quindi tende a vederti (in quanto editore) come colui che ti ha scelto tra i vari scrittori, si sviluppa quel rapporto reciproco di stima ma per certi versi se lo scrittore vede che l’editore non lo propone\pubblicizza sufficientemente o gli fa una serie di critiche lo vede quasi come un suo nemico, in realtà tutto questo è bello perché si instaurano dei rapporti sinceri, costruttivi, umani. Il bello dei rapporti umani è proprio questo, far emergere la conflittualità, oggettivamente essa cresce ovunque – la conflittualità è importante. Io sono una persona molto accogliente, raramente entro nello scontro ma ho ovviamente delle preferenze e mostro le mie osservazioni. È capitato, ad esempio, che rivelassi le mie perplessità e che queste fossero viste in malo modo perché percepite come ingerenze o intromissioni nell’ambito della scrittura. È anche giusto che per un autore sia così e lo rispetto ma devo dire che poi, spesso, mi rendo conto che queste osservazioni vengono carpite e assimilate, in qualche modo accettate in altra forma, diluite nell’opera. Quella sorta di conflitto serve poi per il bene del libro, dello scrittore e di riflesso della casa editrice. Magari risulta difficile accogliere con facilità e leggerezza le critiche ma andando oltre la polemica, diviene stimolante e importante quel conflitto perché confluisce nella comprensione e nell’accettazione. L’autore ha il giusto pregiudizio che l’editore possa pur non volendo, banalizzare la sua opera. Chiaramente, Fabrizio fa un bel lavoro di editing massiccio e la mia collaboratrice Paola Sannia, in fase di editing dà delle indicazioni importanti ma il piccolo editore, probabilmente rispetto alla grande editoria, non entra mai a gamba tesa nel testo, è molto più accorto e rispettoso dell’opera e anche qui c’è un motivo pratico, il grande editore deve fare dei numeri esorbitanti, impone persone e dettami del mercato e quindi è ovvio che l’autore pur di emergere deve rientrare in quel sistema mentre con noi c’è quello spazio personale, uno spazio umano di libertà. Noi cerchiamo di lasciare la voce autentica dello scrittore, di lasciare il lavoro “più grezzo” possibile, offrendo solo qualche indicazione non troppo massiccia e difforme.
Gli scrittori temono di diventare irriconoscibili, di essere stravolti e credo sia una paura normalissima ma noi tendiamo sempre a non trasformare quel lavoro in qualcos’altro, ci interessa mantenere viva quell’unicità.

Sabrina Cerino